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Pensieri

Il “non detto”

  • 19 Maggio 202119 Maggio 2021
  • da giorgiogiasir

Da piccolo non capivo, da perfetto bilingue, perché certi termini che in una lingua avevano un significato positivo o neutro, nell’altra avessero un senso prevalentemente negativo… Dal mio punto di vista le parole erano un sistema per descrivere passi di vissuto, e non per forza questo doveva racchiudere un messaggio positivo o negativo: questo dipendeva secondariamente dal contesto in cui venivano usate.
Negli anni, crescendo, ho compreso dove fosse l’inghippo: ogni parola si porta dietro la sua storia culturale, una sorta di informazione non detta e non spiegata dai dizionari, quella parola avendo un suo proprio vissuto nella società in cui è usata, acquista un suo carattere, una sua identità e di conseguenza si schiera nell’essere una bella parola o una brutta parola, anche se apparentemente innocua e magari con lo stesso significato lessico dell’altra.

Questa mia “scoperta”, da perfetto bilingue, non si è fermata nel contesto comunicativo scritto o orale, ma si è estesa in tutte le forme di comunicazione sociale, sì: lo stesso principio vale anche nella comunicazione virtuale attraverso social. Ci sono frasi o modi di dire nel parlato che è bene omettere in una comunicazione scritta su messaggistica istantanea, perché la mancanza della “reale” Smorfia facciale, non può far comprendere all’interlocutore la vera intenzione emotiva del mittente, e dunque un certo discorso, potrebbe essere soggetto ad una “brutta/cattiva” Interpretazione seppur le intenzioni del mittente potessero essere scherzose o semplicemente neutrali… Da lì, le emoji nel quotidiano che non essendo reali espressioni facciali manipolano ulteriormente questo senso di “buono” o “cattivo” in ogni frase scritta attraverso messaggistica istantanea.

Ma andiamo oltre, viaggiamo ulteriormente in questo viaggio del “non detto” che va estrapolato tra le righe della comunicazione sociale. Entriamo in famosi social: nel primo “figlio di Zuckerberg”, il vecchio e caro fb, abbiamo appreso che alle persone non interessa tanto quello che hai da dire, certe riflessioni è bene tenersele per sé. Non interessano ai tanti, non prendono i “mi piace”, dunque molto meglio un gattino, un immagine d’effetto o ancora meglio un luogo figo con te in primo piano, e… sì! : la foto fatta da solo, che era sinonimo di sfigato, in cui neanche avevi un amico per farti fare una foto, rivendica il suo sangue diventando il selfie. E la foto davanti allo specchio, le famose foto da “bimbo minchia” nate con i primi cellulari a fotocamera, quelle che facevi da solo per vederti i peli nel naso o i brufoli e le stempiature e poi nascondevi in cartelle profonde nelle sottocartelle nel pc, o cancellavi subito, hanno avuto i loro diritti esistenziali e pian piano hanno scalato la piramide sociale conquistando il social.

Il “non detto” dunque è andato oltre, non è più una scelta sociale legata ad una distinzione culturale, non è la società che discute e decide cosa è buono o cattivo, ma è la stessa pura iterazione umana a fare da giudice: è quello che piace di più che decide, e istruisce l’algoritmo a scegliere quello che è più di tendenza e merita visibilità o quello che invece non la merita.

« Un momento, ma è proprio così? :
Se noi siamo già abituati dalla lingua stessa ad evitare certe parole rispetto ad altre, non è che anche un algoritmo, tramite il numero di “mi piace” ci può condurre a rivalutare il nostro pensiero, i nostri contenuti, le nostre decisioni future? Non potrebbe essere questo meccanismo “non detto” a modificare chi siamo “socialmente” e passo dopo passo chi siamo culturalmente?… »

Nel frattempo nasce il figlio adottivo di Zuckerberg , un applicazione per fotografie social: tutto gira inizialmente sul contenuto delle foto: arte, cibo, bellezza nelle varie forme visive fanno da padrone. Il social Instagram cresce sempre di più e papà Zuck ne annusa le potenzialità: Tanti utenti infatti usano fb solo per post visivi, annoiati da letture prive di grossi contenuti, vista l’innata caratteristica del grande fratello fb di mettere in secondo piano i post verbosi o di contenuto significativo, riflessivo, arguto e dunque potenzialmente pericoloso. L’idea è quella di dare a questi utenti annoiati, il substrato del “non detto” di fb ma arricchito con foto di bimbi minchia a gogò, con l’aggiunta di foto colorate su qualsiasi argomento per cui l’occhio umano ha un debole: e si da il via a foto “soft-porn” di tette e culi come se non ci fosse un domani, e giù di “pietanze alla escort” photoshoppate e piene di colori vividi che ti fanno scendere l’acquolina in bocca neanche fossimo cani che fissano braciole alla brace. L’algoritmo premia chi conquista più seguaci affamati di foto accattivanti e sensoriali, dandogli possibilità di guadagno: si introduce la pubblicità attraverso gli influencer, e chi può essere più influenzabile rispetto a un pecorone che sbava guardando foto di cibo e di culi vestiti?… Beh: il figlio adottivo ha superato di gran lunga il “grande fratello”, potremmo rinominarlo “cuculo”, uccello che in natura dopo essere stato deposto in un nido non suo, ingrossa spropositatamente e spinge fuori dal nido il pulcino originariamente proprietario del nido, facendolo precipitare al suolo. A differenza del caso in natura però, qui papà Zuck è ben consapevole del complotto essendo complice…

« ll “non detto” va anche fuori dai social, sai?: »

Quando ci viene data la possibilità di fare tutto a metà del tempo, grazie alla tecnologia sempre più performante, noi siamo convinti di poter spendere il nostro tempo come più ci piace, ma tanti di noi senza neanche saperlo si ritroveranno a lavorare per un qualche papà Zuck per il doppio del tempo rispetto a quanto ne lavoravano prima, e magari la loro vita, senza neanche capirlo, potrebbe precipitare in una prigione invisibile.

Forse il “non detto” andrebbe cercato, e detto.

Giorgio Giasir
14/04/2021

Pensieri

Mascherine

  • 18 Aprile 202018 Aprile 2020
  • da giorgiogiasir

Mi sembra di camminare tra centinaia di chirurghi. Ma poi, no, osservo meglio:
non sono professionisti. Anzi, questa è gente che vorrebbe evitare un ospedale il
più possibile. E c’è di tutto. Nelle vie cittadine, l’ordinanza ministeriale prevede
l’obbligo di indossarla e tutti si sono attrezzati. Mi fa un po’ sorridere questa
obbedienza e mi intenerisce la nostra accettazione improvvisa di regole nuove.
Immagino dettate dalla paura. Di venir sanzionati, al più, non di ammalarsi.
Così osservo gli sforzi messi in campo da ognuno, per poter girare tranquillo.
Qualcuno usa la carta da cucina, qualcuno il filtro, giudicato “egoista “.
Qualche anziana signora si arrangia col foulard di Kenzo, resuscitato da un cassetto,
fuori moda ma perfetto per la bisogna.
Chirurgiche, sbilenche, fatte a mano o assurde, le mascherine oggi sono obbligatorie.
Vengo incuriosito da una specie di hippy con la barba lunga, che ostenta sul viso un
telo di garza indiano, con il mantra OHM stampigliato all’altezza della bocca.
Vedo fiori stampati sul cotone, simboli della pace o teschi su fondo nero.
Sembra una moda, più che una necessità. Di nuovo esce l’individuo, con le sue caratteristiche,
che sfrutta questa novità per esibire la propria personalità.
Io-diverso-da-te.
E così sul web vedo la blogger Ferragni, che si sforza di sorridere sotto
la maschera fashion, o il cantante Vasco Rossi che ci rinfresca la memoria
sui movimenti femministi e i loro simboli.
Ma che sta succedendo?
Mi sembra una richiesta di aiuto, questo continuo, inesorabile volere, a tutti i costi, apparire.
Chi c’è dietro la maschera? Hai paura? Di cosa?
Di sparire, di non essere riconosciuto, di rimanere solo?
La tua costante presenza sui social media ha fatto già i suoi danni.
Se non appari, non esisti.
E come puoi apparire, nella vita reale, col viso coperto?
Capisci forse, appena sotto pelle, lo stato d’animo della donna nel mondo musulmano?
Coperta, nascosta, dimenticata,
cancellata, lei non esiste.
Ma non importa, vero? Però oggi vediamo tanta esibizione, filtri, materiali,
sorrisi e Batman o Superman, per scacciare subito via quell’idea.
Quella materializzazione del “numero” umano, tutti uguali, coperti,
anonimi, massa, popolo informe, gregge belante da indirizzare con la forza verso l’ovile.
Non possiamo ribellarci, ovviamente.
Non ne abbiamo la possibilità e neppure l’informazione ci sta aiutando a riordinare i pensieri.
Così ci consoliamo sul web.
I “gruppi”. Molto utili, in questo periodo:
aiutano a sentirsi meno soli, a confrontare le idee, a sfogarsi un po’,
a cambiare, forse, qualche opinione. Così, è tutto un fiorire di “oggi mi hanno sanzionato”, e giù duecento commenti.
Oppure “posso fare questo o quello”, e decine di consigli o recriminazioni.
Meno soli, meno soli, “help me if you can, i am feeling down …”,
cantavano i Beatles. Tutti sono preoccupati di sparire, di essere dimenticati,
abbandonati, soli.
Appena dopo 2 mesi di quarantene e presìdi obbligatori,
oggi finalmente qualcuno si è ricordato dei sordomuti.
Il loro linguaggio dei segni comprende pure la comprensione del labiale che, con la mascherina, diventa impossibile.
Un taglio con le forbici, quindi, alla mascherina, in corrispondenza con la bocca,
e copriamo il “buco” con la plastica trasparente.
Una pratica idea. Ma sono già passati due mesi.
Nessuno ci aveva pensato.
Niente cuoricini, fiori, Batman, Simpson, qui.
Pensiero e solidarietà per gli altri.
Dove sei?
“Help me get my feet back on the ground”, cantavano i Beatles.
“Won’t you please, please help me?”

L’anonimo artista della battigia

Pubblicato su:
“Brezza di mare”
il 18/04/2020

Racconti

Chiara

  • 15 Maggio 201915 Maggio 2019
  • da giorgiogiasir

 Ero piccolo che uscivo in strada. Da solo. Come gli altri. Nessuna paura, si andava da un portico all’altro a giocare con i sassi. O a carte. O “in campagnetta”, la striscia di erba incolta che circondava gli edifici popolari. Potevamo farlo, non c’erano pericoli. Poche macchine in transito, niente loschi figuri nei paraggi. Potevamo ancora conoscere l’altro, il bambino che giocava con noi, e guardarlo negli occhi. Scrutare le sue reazioni, le sue mosse, per agire di conseguenza. Non come oggi, con gli smartphone. La realtà sfugge di mano ai bambini di oggi. Non capiscono chi hanno davanti, gli amici, i nemici, di chi fidarsi e chi no. E poi potevamo guardare loro. Le bambine. Seduti sui muretti, avevamo le nostre ginocchia sbucciate accanto alle loro gambe che spuntavano dalle gonnelline di cotone a fiori; sembravamo già grandi nei nostri discorsi impegnati, facevamo finta di avere delle opinioni da adulti.

 Ha 7 anni Chiara quando il suo papà, come fa spesso, la manda a comprargli le sigarette. Dal portone al negozio, solo 15 metri da percorrere in solitaria. La piccola si accorge che un vecchio (vecchio? chi lo sa?) la sta guardando mentre chiacchiera col tabaccaio. Uscita fuori, si sente una persona alle spalle che, appena entrata nel portone, si infila nell’atrio con lei, di rapina. Un attimo: Chiara si volta di scatto e lo vede. Vede lui, il vecchio di prima l’ha seguita, che nello stesso istante le mette da dietro una mano tra le gambe per prenderla in braccio e le propone di accompagnarla a casa. Terrorizzata, la piccola ha il cuore a mille, le si chiude la gola, si divincola in un attimo e riesce a liberarsi mentre lui non insiste. Corre come una pazza su per le scale, sei piani di corsa, i bambini lo possono fare, sì, e corre dal suo papà. Riferito l’episodio, l’uomo resta sorpreso e arrabbiato, decide di non affidarle più commissioni da sola. È già cresciuta la mia bambina? Forse quell’uomo non aveva cattive intenzioni. Però Chiara, la mia piccolina, dimostra più degli anni che ha. Al cinema della parrocchia, ci vanno tutti, soprattutto bambini e adolescenti. Che bello, il cinema gratis e tutto il pomeriggio libero. Davanti a Chiara c’è un ragazzo, più grande, che le sussurra frasi sconnesse. Chiara percepisce che c’è qualcosa di sbagliato in quel sussurrare, non sa esattamente che cosa. Però la sua sensibilità le dice di non incoraggiarlo, di guardare da un’altra parte, lei in quel momento semplicemente fa finta di non essere lì. Passa il tempo e la sua adolescenza è vissuta più come un disagio che come un periodo bello della gioventù. La sua statura, è alta Chiara, la fa notare quando passa. Ma lei non vuole, non cerca l’attenzione. Il suo corpo la imbarazza, lo vedono tutti, ma perché non posso vivere la mia vita senza tutti questi occhi su di me? Sugli autobus le mani degli uomini ogni tanto tentano l’approccio, che schifo, ma che succede? Si sposta, si divincola e addirittura si sente apostrofare: “Be’? Niente di male…”. Ne prende atto. Comincia la sua vita da donna. Per strada capisce, d’istinto, che guardare davanti a sé significa incrociare gli sguardi degli uomini che a loro volta, se li guardi, si sentono invitati. Va bene, non guardo più avanti. Guardo le vetrine, per terra, per aria. La mia libertà è andata. Loro possono, sì, i maschi, possono tutto. Io no. Nemmeno guardare davanti a me mentre cammino. Inizia a lavorare come impiegata e pure in quel luogo professionale, serio, deve cambiare la sua personalità. Troppo bella. Come mai le troppo belle sono spesso stronze? Perché si difendono. Chiara infatti capisce che non può essere sé stessa, allegra, solare, come è la sua indole perché ciò comporta un invito al mondo maschile. Qualunque uomo, anche brutto, anche vecchio, si sente adulato se una bella donna gli si rivolge col sorriso e con la dolcezza, con l’intelligenza della battuta, con il capirlo al volo, con la disponibilità. Lui, poverino, crede che questa fata si sia improvvisamente invaghita di lui, chissà perché, povero uomo stupido, senza qualità, tanto arrogante ed egocentrico da meritare l’allontanamento a vita. Perché tu, stupido uomo, la inviti a cena? Perché la offendi sul posto di lavoro? Lei è gentile e sorridente, credi lo faccia perché ha te davanti? Però è lei che paga il prezzo. Reagisce anche questa volta e cambia. Non lo fa più. Falsa il suo essere, il più profondo, il più bello. La sua spontaneità. Sta ora molto attenta a come parla, a come si atteggia, fa vedere di essere fredda, un vero ghiacciolo. Ma Chiara non è così. La costringe il mondo dei maschi, sempre a caccia, sempre affamati, sempre ciechi di fronte a lei. La donna. Chi è? È quella che si innamora, quella che fa figli, colei che manda avanti la famiglia di lei, di lui, di tutti. È quella che rivede lo stesso copione ripetuto migliaia di volte. Se sei troppo bella sei mia, se sei troppo capace mi fai ombra e ti devo distruggere. Se sei ferma nei tuoi propositi sei acida, se hai delle ambizioni vuoi fare l’uomo. Se hai delle passioni, non sono le mie. Quanta guerra, quanta fatica, Chiara. La tua intelligenza ti ha fatto superare questi anni di continua allerta. L’uomo non sa. L’uomo non ha la più pallida idea del continuo guardarsi attorno della donna nel corso di tutta la sua vita. Sempre sotto attacco. Sempre preda. No. Il maschio vive come se su questa terra ci fosse solo lui. Lavora, si preoccupa del bene proprio e degli altri, dispone o accetta, viaggia o si riposa, si innamora oppure no. Ma non vive costantemente sotto osservazione. Non sa cosa sia annusare l’aria ogni istante per capire se c’è un nemico in agguato. Posso o non posso fare questo o quello? Non si pone alcuna domanda. La strada della sua vita è dritta, quella di lei non lo è. Chiara deve adattarsi alle situazioni che incontra ogni istante, scegliere la più appropriata, per evitare la catastrofe. Lo saprà, alla fine, se ha agito per il meglio, per sopravvivere. Ma dov’è la bella bambina con le ginocchia penzoloni seduta sul muretto? Il suo sorriso intelligente, i suoi occhi azzurri e indagatori, il suo bel viso raggiante di felicità quando la guardavo un po’ più a lungo. Femmina. Sei meglio, sei più grande di noi. Sai più cose. Sai vivere. Sai lottare. Ti adatti, perdoni, castighi, giochi. Fai più di noi. Ma anche la tua grandezza, oggi, è in pericolo. La giovane femmina che vedo ogni giorno scendere le scale del mio palazzo con gli auricolari e lo smartphone in mano, non conosce la realtà che la circonda. La sua sensibilità di donna è stata assorbita completamente dai social che segue giorno e notte. Nessun allarme, nessuna deviazione nel suo percorso, nulla da scansare o da rifinire. Non cresce, la femmina che è in lei. È morta, purtroppo. E io sono qui, che penso a lei. La guardo, e piango.

L’anonimo artista della battigia
08/05/2019

Pubblicato su:
“Brezza di mare”
il 15/05/2019

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