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  • INFO: Battigia e Naufrago

Brezza di mare

 In questa pagina: aforismi, frasi e riflessioni.
All’imbrunire sulla battigia le idee prendono la loro forma più tangibile.

 Dunque se vi siete incamminati sulla battigia ed avete voglia
di lasciare la vostra impronta su questa sabbia,
potete aggiungere il vostro pensiero nei commenti,
e i vostri aforismi o le riflessioni più belle e che ben si sposano
con la brezza di questa battigia,
entreranno a far parte della battigia del naufrago!

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111 COMMENTS
  • giorgiogiasir
    16 Aprile 2019 a 20:33
    Rispondi

    ” La società globalizzata odierna è come un uomo molto anziano che cerca tra un mucchio di cose…
    Indaffaratissimo continua la sua ricerca in modo affannoso e sfibrante.
    Ma se gli domandi che cosa stia cercando non ti sa più rispondere perché lo ha dimenticato.
    Nonostante ciò continua imperterrito la sua ricerca, perché ha troppa paura di fermarsi a pensare:
    Ormai continuare a cercare è l’unica cosa che riesce a fare. ”

    Giorgio Giasir
    07/09/2018

  • giorgiogiasir
    16 Aprile 2019 a 20:42
    Rispondi

    ” Quando l’uomo accetta la sua piccolezza, solo allora, può iniziare a vedere in grande. ”

    Giorgio Giasir
    07/04/2019

  • Fulvy
    23 Aprile 2019 a 07:04
    Rispondi

    Per trovare qualcosa bisogna sapere cosa cercare. Oggi nessuno è felice. Sono troppe le cose che abbiamo a portata di mano. È quasi possibile avere tutto. Ed è proprio questo, il problema. Nello stormo di uccelli in formazione, il rapace non riesce a catturare la sua preda. Vedendone troppi, non ne vede nessuno. La mandria di bufali in corsa destabilizza la leonessa che, confusa da quell’abbondanza, non ce la fa ad isolare un solo elemento e resta a bocca asciutta. Lo squalo preferisce la sua vittima isolata, non l’enorme banco di pesci che si muove compatto e danzante, ubriacando i suoi sensi. Così, l’uomo. Ubriacato da tale abbondanza non riesce a concentrarsi su nessun bersaglio. Perdendo di vista il suo obiettivo. Un ricordo in Egitto, tanti anni fa. Una povertà quasi assoluta di un villaggio nel deserto. Una bambina ci viene incontro, impolverata e sorridente. Non ci sono ricchezze nella sua famiglia. I fori delle sue orecchie non portano orecchini ma un semplice filo di lana colorata che abbellisce il suo già splendido viso. La sua giornata è bella, oggi. Degli stranieri sono passati di là e lei è felice di aver visto qualcosa di nuovo.

  • giorgiogiasir
    23 Aprile 2019 a 12:16
    Rispondi

    Ti ringrazio Fulvy per il profondo e prezioso pensiero!
    A tal proposito condivido un aforisma che avevo scritto qualche tempo fa
    e che si collega molto bene con il tuo discorso:

    “Una voce che grida nel deserto è forte e chiara,
    come le gocce d’acqua che gocciolano lentamente
    da una fontana nel cuore di una notte stellata d’agosto.

    Un’altra voce invece,
    che urla tra miliardi di persone che parlano incessantemente,
    è come il fruscio di una singola foglia nel bel mezzo di una bufera.”

  • Fulvy
    23 Aprile 2019 a 14:02
    Rispondi

    Giugno. Mi trovo seduto all’ombra della solita trattoria della Dalmazia centrale, dove i profumi del pesce alla griglia e delle fritture si confondono con il profumo di sale e alga che accompagna il nostro rilassante pomeriggio. Non c’è ancora il pienone di turisti ma i “ricchi con la barca” sono già arrivati. La famiglia italiana si siede al tavolo a fianco. Genitori con i figli adolescenti, un maschio e una femmina. Due ribelli: lui con lo scalpo ai capelli, emaciato, orecchino e pantaloni calati sui fianchi, assume atteggiamenti di noia e fuma incessantemente. Lei, un po’ più giovane, guarda continuamente il cellulare. Alle domande dei genitori rispondono a monosillabi, scocciati. Pallidi e per nulla convinti di stare là, quando se ne potevano rimanere a casa, con gli amici, a fumare spinelli e fare notte fonda. Ogni tanto mollo la presa, mi guardo ancora intorno, assaporo quella calma, quel vento tiepido e piacevole, il rumore delle poche e calme onde in lontananza, l’approdo dei tender per consentire ai tedeschi di farsi una birra. Che bello, non riesco a staccarmi dal mio mare, l’Adriatico, che nessuno conosce così a fondo come me. Ma vengo distolto da un tedesco che chiede al ragazzino insofferente di fargli accendere la sigaretta. L’adolescente si raddrizza sulla sedia, ha come un sussulto di timidezza, che gli chiederà mai lo sconosciuto? Poi accenna ad un sorriso e addirittura dice al teutonico di tenersi l’accendino. Perchè? Ti sembra normale? Ti ha chiesto di accendere, come ti viene in mente di esagerare? Infatti il tedesco non lo accetta, ringrazia e se ne va. Continuo ad osservarlo nella mia diagnosi: che problemi avrai mai, ragazzino? Non vedi dove sei? Non percepisci questa meravigliosa aria di giugno, la tua salute, i tuoi genitori che ti hanno portato qui in barca? Non senti il profumo di questo mare? Vedi le persone indaffarate a prepararti il pasto? Sembra di no,
    Improvvisamente arrivano i piatti. Hanno ordinato una frittura mista, di paranza, quella con le spine, dove si fa fatica a mangiare e bisogna farlo con le mani. La frittura migliore che ci sia. Quella del pescato del giorno. Le facce dei due fratelli sono cambiate, hanno fame evidentemente. Ma continuo nel mio indugiare su di lui. Cosa farà? Si tufferà nella frittura con le mani, sfidando la difficoltà, o allontanerà il piatto schifato, già stanco della pesantezza di quella situazione?
    Mangia. Lui prende i pesci con le mani, li seziona piano per non romperli troppo e comincia ad assaporarli con calma. Non è esperto e si vede. Ma non si lascia traumatizzare dalla difficoltà e non si fa pungere dalle piccole spine. Sorseggia il vino bianco e si guarda timidamente intorno, anche per vedere se qualcuno lo sta osservando. Gli sta passando, il nervoso. Si sta dimenticando delle sue sigarette, della sua noia, dei suoi amici, dei suoi problemi e della costrizione di essere là con i suoi genitori. Ma il tiepido vento che gli viene incontro lo accarezza consolandolo, e sembra dirgli guarda che tu stai mangiando del pesce fritto all’aperto alle quattro del pomeriggio, lontano chilometri da casa tua e forse stasera arriverà la tempesta. Sei pronto?.
    E’ cambiato il suo viso, nel frattempo, è cambiato lui, i suoi occhi, le sue mani unte di olio, sorride.
    Che ti ha fatto la vita povero ragazzo? Di chi è la colpa del tuo ridurti così? Eri uno straccio quando sei venuto qui, dopo due ore sembri tornato da una lezione di vita.
    Sono contento, io. Povero illuso che crede ancora nella frittura taumaturgica. Ma mi vengono le lacrime agli occhi quando penso che basterebbe poco, oh sì, quanto poco servirebbe per far vivere felicemente questa gioventù.
    La loro tavolata parla e ride, sono contenti.
    Io giro la testa e guardo fuori, il mio caro mare. Pieno di morti ammazzati è un Adriatico che non sa più parlare, dopo la seconda guerra mondiale. Ai nostri morti non basta certo una frittura gustata all’aperto.
    Ma al ragazzo che nulla ha vissuto dell’orrore passato, dovrebbe bastare.

  • Fulvy
    24 Aprile 2019 a 15:10
    Rispondi

    Sulla battigia la mente vola e lo sciabordio dell’acqua fa un continuo avanti-indietro, un dentro-fuori senza tregua che mi fa ripensare alle mie amicizie. Durano un po’, certo qualche anno, poi, chissà perché, se ne vanno via pian pianino, così come sono arrivate. Senza grossi contrasti, forse esiste qualcosa che stanca. Ci stanchiamo noi, si stancano gli altri? Diamo forse agli altri delle aspettative? Non so, promettiamo inconsciamente qualcosa di cui loro hanno bisogno? O ne abbiamo bisogno noi? E perchè poi tutto svanisce? A volte mi vedo come una spugna, assorbo assorbo fino a quando sono bello gonfio. Poi devo cambiare, il liquido che mi impregna cola via da tutte le parti. Non assorbo più. La mia esperienza è finita, ne devo cominciare un’altra. Esaurito l’entusiasmo della scoperta mi metto là, e aspetto. Non cerco mai l’esperienza. Posso restare anni senza fare nulla. Ma lei arriva senza farsi chiamare. Arriva da sola e mi deve insegnare qualcosa. Alberto. La tua passione era l’Africa, l’Africa nera, lo Zaire degli anni passati dove ti piaceva fuggire per ritrovare l’umanità. Ritrovavi te stesso perchè incontravi l’altro, la persona semplice che non ti metteva ansia, soggezione, paura. Mi hai raccontato i tuoi segreti e come sei stato accolto. Come un figlio, come un fratello. Chiedevi collaborazione e l’ospitalità da quegli sconosciuti, gente buona che ti aiutava sempre. Gli raccontavi che tuo zio missionario ti stava aspettando e tu, non avendo i soldi per viaggiare, speravi nel loro aiuto. Che non mancava mai. Disponibili, pronti. Ti hanno fatto dormire a casa loro, ti hanno nutrito e ti hanno trasportato per centinaia di chilometri nella foresta a bordo di camion e vecchi gipponi scassati. Ti sentivi a casa, tu. Diventavi anche tu più buono e disponibile. Quando tornavi qui, l’effetto benefico però svaniva presto. “Qui non riesco” ti scusavi. Perchè laggiù si? Perchè lì mi aiutano. Certo, ma gli racconti frottole, non è vero che sei senza soldi e tuo zio missionario ti sta aspettando. Per forza gli racconto balle, mi rilanciavi, altrimenti non mi darebbero alcuna disponibilità e io non riuscirei mai a godere del loro mondo. Mi sentivo stranamente a disagio dopo questa verità. E noi? Anche noi siamo disponibili se qualcuno male in arnese ci chiede aiuto. Non lo siamo più se non gli crediamo, se ci racconta frottole oppure siamo sicuri che fa finta di avere bisogno mentre in realtà vuole solo sfruttare il nostro buon cuore. Alberto ed io non abbiamo continuato la nostra amicizia. Dopo tanti anni la mia spugna era zuppa, e io e lui ci siamo persi di vista. Vorrei oggi parlare con lui della sua Africa e della nostra Africa, quella che è venuta qui. Vorrei chiedergli mille cose. Ma Alberto è partito due anni fa per il suo ultimo viaggio. La malattia l’ha portato via. Con le sue certezze.
    Va e viene, lo sciabordìo di questo mare. E così pure le nostre esperienze. Spesso incomplete, mai deludenti.

  • Rita
    24 Aprile 2019 a 15:56
    Rispondi

    Noi che siamo nati sugli scogli
    e tutto ci pareva difficile
    Noi che a piedi nudi
    abbiamo imparato a sopportare
    le asperità delle rocce
    Noi che la battigia sabbiosa
    riflesso di una vita comoda
    non sappiamo che cosa sia
    Noi che l’onda
    che s’infrange negli anfratti
    ce la portiamo dentro
    Noi che la risacca ci fustiga
    e non ci accarezza, mai
    Noi, che anche nel mare burrascoso
    abbiamo preso il largo
    più forti, più vivi, sempre.

  • giorgiogiasir
    25 Aprile 2019 a 15:31
    Rispondi

    Grazie Rita per la tua magnifica poesia! State arricchendo questa battigia con coralli preziosi!

    1. Rita
      25 Aprile 2019 a 22:30
      Rispondi

      Mi ci ha portato la risacca fin qui… e con la risacca riprendo il largo. Non escludo il ritorno. 🙂

  • Hazelnut
    25 Aprile 2019 a 22:33
    Rispondi

    Fin da piccola mi sono sempre chiesta perchè…

    Perchè la terra,gli uomini,gli animali,tutto questo trambusto per poi morire….

    Spesso l’angoscia mi prendeva all’improvviso, avevo paura del futuro, del domani….

    Crescendo ho capito che non ero l’unica a porsi questa domanda…

    Poi un giorno arriva il dolore…

    Quello vero,quello che ti spacca in due il cuore, quello che ti fa camminare sull’orlo del baratro…

    E ti accorgi che siamo stati creati anche per affrontarlo, per superarlo e per essere più forti….

    Ecco , non ho più paura……

    1. giogiasir
      26 Aprile 2019 a 00:14
      Rispondi

      Grazie mille Hazelnut,
      c’è chi è nato per esser una fenice:
      rinascendo dalle proprie ceneri,
      con qualche consapevolezza in più e qualche paura in meno,
      tenendo sempre presente che la vita è qualcosa che nessuno ci doveva.
      Non era promesso!
      Ma è stato un dono.
      A noi spetta affrontare le sue bellezze e quello che ci fa soffrire.
      Morire anche,
      ma mai per sempre! 😉

      1. Hazelnut
        26 Aprile 2019 a 14:26
        Rispondi

        Grazie Giorgio ☺️

  • Fulvy
    26 Aprile 2019 a 16:26
    Rispondi

    Quanto mare nei miei occhi. Rilassante o burrascoso è sempre lui il protagonista. Lui a suggerire un pensiero, un’emozione, un ricordo. Qualche anno fa, in Sardegna. Ora di pranzo, a poltrire all’ombra di un ombrellone blu. Disteso a terra sull’asciugamano colorato, riesco ad appoggiare la schiena sull’unica roccia di granito rimasta in spiaggia. Auricolari per isolarmi dal vociare dei bagnanti, neppure troppi per la stagione estiva. Che meraviglia. Alla spiaggia di sabbia non sono abituato, quindi all’occasione, me la voglio un po’ godere, la voglio capire. Chiudo il libro e mi soffermo su un ragazzo biondo con i capelli lunghi che gioca sulla battigia col suo cane. Gli lancia un freesbee al largo e l’animale felice lo va a riprendere. Mentre aspetta, il giovane ha i capelli scompigliati dal vento che arriva alle sue spalle. Anche il sole arriva da dietro, così che la mia immagine e pure la sua non viene disturbata da alcun riflesso. Il mare blu scuro è di fronte a lui e sembra invitarlo ad osservarne l’infinito. Le veloci onde che arrivano sulla sabbia lo fanno un po’ arretrare per poter restare in equilibrio, fino al prossimo lancio al cane. Una scena bella, di libertà. Nelle cuffie ho la splendida musica degli anni 70, i Jefferson Airplane. Assieme al capellone libero, quella musica mi apre il ricordo della gioventù hippy, dei grandi raduni americani, dei concerti, del pacifismo, dei sogni. Il cane ritorna col freesbee in bocca, gocciolante di mare, e il suo padrone si piega verso di lui per accarezzarlo, esibendo una certa magrezza che rivela le ombre del costato. Erano tutti così negli anni 70. Eravamo tutti così. Che peccato. Eravamo certi di vincere, la nostra purezza era la nostra forza e noi eravamo giovani. Impossibile perdere. Il ragazzo che sto osservando non immagina neppure che cosa mi sta ricordando. La nostra sconfitta. Abbiamo perso. E quel che è peggio è che siamo stati usati. Come il miglio al canarino, il potere ci ha attirato con mangimi di tutti i tipi. Prima ci ha richiamato con la musica e gli slogan, poi ci ha decimato con la droga e il consumismo. Il gioco era più grande di noi. È finito tutto. Non si torna indietro. Possiamo solo fare finta di essere liberi, per qualche ora, e giocare sulla battigia senza pensare al futuro. La musica dei Jefferson finisce e il sole sta già calando dietro la collina. Il ragazzo biondo chiama il suo amico col freesbee in bocca e se ne va.

  • Silvia Borzi
    27 Aprile 2019 a 04:20
    Rispondi

    La vita .. quel bene prezioso che ci appartiene dal primo momento in cui vediamo la luce … quel privilegio che non va sprecato e che va custodito curato accudito gelosamente fino alla morte …. quel dono che l’unione di due corpi desiderosi l’un l’altro regalano a volte senza neanche saperlo … la vita … la vita.. la vita … a volte bella a volte difficile a volte insignificante a volte maligna ma sempre e comunque un dono da non sprecare mai.. mi arrabbio con chi non ne capisce il reale significato e con chi decide di snobbare questo incantesimo divino questo regalo non eterno questo raggio di luce che riscalda i nostri animi. Solo chi l’ha vissuta veramente sa cosa significa perderla .. la vita … un viaggio attraverso dolore gioia felicità rabbia rancore odio amore … la vita (ispirata dopo aver letto “Vita”)

  • Silvia Borzi
    27 Aprile 2019 a 04:24
    Rispondi

    “Quella mattina mi svegliai prima del solito, mi sentivo strana, spossata, triste ma profondamente consapevole che sarebbe stata la scelta giusta. Mi preparai come ogni mattina ma stavolta l’appuntamento era diverso…era doloroso…era definitivo! Troppe sensazioni invadevano il mio cervello, confuso già di suo da sempre! Avevo lui accanto e guardandoci negli occhi l’intensità del nostro sguardo valeva più di mille parole! Il rumore del silenzio di quella mattina era più assordante del caos dell’ora di punta nelle grandi metropoli del mondo…. Ed ecco tutto fatto, tutto risolto, tutto tornato come prima…ma come prima non c’era più nulla! Dolore interiore più forte di quello fisico che mi ha accompagnata per diversi giorni! La vita…questo bellissimo dono che ci è stato dato senza chiederlo e che io,senza chiedere, ho deciso di toglierti.. saresti stato maschio ? Saresti stata femmina? Non lo saprò mai! … la sera arriva veloce, ceno, faccio i miei due tiri della solita sigaretta fatta del solito tabacco e vado a dormire, pensando a te a quello che saresti stato o forse meglio a quello che io ho deciso che non dovevo essere…” ! È ciò che ho colto dal silenzio dell mia amica, dal suo sguardo che parlava emanando dolore tristezza sofferenza rabbia per aver fatto un errore che mai si sarebbe perdonata chiedendomi silenziosamente perdono! (Ispirata dopo aver letto “Tempo”)

    1. giogiasir
      27 Aprile 2019 a 04:38
      Rispondi

      grazie Silvia per queste due pietre preziose, condivise con noi 🙂

      1. Silvia Borzi
        27 Aprile 2019 a 04:47
        Rispondi

        Grazie a te Giorgio per aver condiviso il tuo blog anche con me ! Bello scrivere e leggere i pensieri profondi di altre persone !

  • Fulvy
    28 Aprile 2019 a 15:38
    Rispondi

    Mi alzo e guardo fuori.  È un po’ che sono fermo. Ho letto i  viaggi della vita di Hazelnut e Silvia,  gli interrogativi, i pensieri, le angosce. E come sempre,  mi viene in mente lei. L’India. Impossibile descriverla come un paese, piuttosto va pensata come un organismo. Tante componenti vive che lottano separatamente ma che occupano gli stessi caotici spazi. Si può paragonare la nostra vita a “quella” vita? Le nostre domande sono pure le  “loro” domande? L’indù-tipo si alza al mattino e rivolge le sue preghiere alla divinità che più gli è cara,  in modo da garantirsi una buona giornata.  Non sembra interessato agli altri, non si cura del mondo che lo circonda. Chiedo alla mia guida se questo non gli sembra uno strano modo di vivere, a me sembra piuttosto egoista. Lui mi risponde che non è così, visto che l’induismo impone comunque di fare del bene al prossimo e buone azioni. Gli dico allora: se è vero,  come potete tollerare questa massa di gente povera e malata per terra? Lui calmo: ma guarda che tutti hanno da mangiare, sai? Nessuno muore di fame. E poi chi è ricco fa opere di beneficenza.  Ho capito, insisto, lo so che nei templi si mangia gratis ma vi sembra dignitoso per un essere umano essere lasciato per terra pieno di mosche e malattie? Calmissimo e deciso, l’amico indiano mi insegna: chi nasce così è perché nella sua vita precedente ha fatto delle cose cattive e quindi rinascendo adesso ne deve pagare le conseguenze. Mi siedo sulla grossa radice di un ficus e osservo la Grande Madre. Il Gange, nella sua parte iniziale, è impetuoso e i fedeli che si immergono devono aggrapparsi alle catene fissate a riva per non essere trascinati via. Tutto molto semplice. Un miliardo e duecento milioni di persone si possono gestire con un diverso sistema? Forse no. Il problema è nostro. A noi impressiona il lebbroso senza dita dei piedi e delle mani, il cieco senza occhi,  lo storpio che si trascina senza arti su un carretto o il deforme che espone il suo orrore per avere qualche rupìa.  Per loro invece questo è un sistema organico che va avanti da sempre,  accettato perché dogma di un credo infallibile. Al momento della morte, si fanno i conti. Se hai agito bene, non rinasci più, il tuo ciclo è concluso.  Se hai agito male, la tua condanna è rinascere per subire la punizione. Il mistero di quel grande paese sta forse proprio nei microcosmi che ognuno ha costruito per la propria sopravvivenza.  Dalle caste ai templi, dal commercio alla questua, dalla piccola imprenditorialità ai grandi e loschi affari, tutti si scavano un cantuccio dove vivere, non mescolandosi con gli altri e difendendo la propria conquista identitaria. L’India è l’opposto della globalizzazione e ci dimostra che, volenti o nolenti, che ci piaccia o no, nel bene e nel male, solo non mescolando le carte il mondo andrà avanti. Alle domande sulla vita di Hazelnut e di Silvia, gli indiani hindu hanno già dato una risposta .

  • Hazelnut
    29 Aprile 2019 a 21:36
    Rispondi

    Quante volte ho sentito la frase : il tempo aggiusta tutto…
    Con il tempo si dimentica ….
    È presto…deve passare un po’ di tempo…
    Di tempo ne è passato…
    poco, abbastanza, tanto…
    E nulla è cambiato….
    L’assenza ti toglie il respiro …
    Non pensare … è l’unica soluzione…
    Il rimpianto di non sapere come sarebbe stato…

    Non si dimentica il dolore …
    C’è solo assuefazione al dolore….
    Ma appena lo lasci andare ti divora …come sempre….

  • Fulvy
    6 Maggio 2019 a 07:06
    Rispondi

    Questo mese di maggio è brutto e freddo. Sembra inverno, fuori, e il cielo grigio mi spinge ad un pensiero sul clima, sull’informazione che giornalmente ci sommerge. Il pianeta si surriscalda. Avremo caldo, tanto caldo. La desertificazione fa rima con disinformazione. Ma chi la fa? Io ho freddo e mi dicono che devo avere caldo. Ho ragione? Ho torto? Che cosa vuole l’America? Che vuole l’economia globale? Chi controlla le notizie che ci arrivano? Possiamo pensare? Dobbiamo farlo o no? Mi sdraio sul divano e guardo il soffitto. Era un periodo interessante. Ma anche molto falso. Un inizio, in un certo senso.
    ​Lei.​ Ricca sfondata, ​erede di un’importante famiglia di ​banchieri. E’ un’artista, una musicista. Ma che artista? Produce opere che sono ​spazzatura pura, rifiuto, stupidità e degrado. Musicista? Lasciamo perdere. Ed è ​anche molto, molto brutta.​ Lui.​ Si incontrano ad una performance artistica di lei, che lui disprezza immediatamente. Neanche si parlano. O quasi. Poi, perché no? Si frequentano. Anzi, sai che ti dico? Lui è un hippy che ha fatto fortuna con la musica ma che ci vede in lei? Ma ovvio, ci vede sua madre. Quella stronza che lo ha lasciato quando si è separata da​l​ suo papà. Che schifo, sua madre l’ha mollato ad una zia che lo cresce come un figlio. Ma che figlio.​..!?​ Lui ha bisogno di una madre. Eccola qua. Brutta (così non ci pensiamo più a quello che potremmo avere, di molto, molto meglio), ricca, non vuole soldi da lui, ma visibilità, e – perché no? – anche di questo lui ne ha bisogno. Ma di ​quella visibilità. Non di essere quello sfigato arrogante che sa tutto e smerda tutti, con quei suoi occhialini sul naso. La sua band lo ​sbatte fuori: ma sì, vattene con quella stronza di giapponese stitica che non sa cantare, ma che ci trovi in lei? Ha pure tanti anni più di te, è vecchia, vecchia, vecchia! Ma come, che ci trovo. Ci trovo il mio riscatto, brutti figli di ricconi viziati: io non sono come voi, io non canticchio canzoncine per le isteriche teen-agers che svengono al vostro passaggio, io sono intelligente molto più di voi, anche se non ho avuto una madre, una madre, una madre. Ma eccola qua, pronta, mia madre, quella che sognavo, quella che mi esalta, quella che mi dice che sono bravo e, anzi, quella che si fida di me perché IO le darò la visibilità che merita, perché lei è brava, è colta, è intelligente, è una musicista, un’artista, una performer, non ha bisogno di ​supplicare per farsi conoscere, la farò IO grande su questo pianeta, io, che la voglio, la voglio, la voglio.​ Ma cosa voglio? Voglio anch’io una visibilità ma non sulle canzoncine stupide, basta, ormai non mi servono più. Voglio la politica, una politica di contrasto a questo mondo di merda, a questo mondo che non ha fatto nulla per impedire a mia madre, a mia madre, a mia madre, di mollarmi a quella pazza di mia zia, ma perché? Perché nessuno ha fatto niente? Ora gliela faccio vedere io, io e la mia nuova compagna, la mia amante, la mia musa, la mia artista, a quelli che se la ridono di me. L’America! Quella che decide tutto. Lo vuole lei, lo voglio io.​ E così rottura, insegnamenti, performances da grande evento. Tutti li amano, nessuno vede più quanto lei è brutta, quanto lui è cambiato, che cosa stanno facendo? Stanno cambiando il mondo. Ma come? Ma con i soldi di lei. Lui li tiene da parte, non si sa mai. Va bene, tappezziamo i muri di NYC, basta guerre, basta conflitti, no Vietnam, solo pace, amore, ​fottiti America, culla del potere mondiale, dei soldi, delle armi, del razzismo, delle chiese per tutti. ​”​Imagine​”​. Immagina un mondo dove non ci sia più nulla. Che bello. Nessuna religione, nessun credo, ma sì, dài: viviamo alla giornata, vuoi? ​Fa​​cciamolo, dài. I banchieri giapponesi che ne pensano di questa trovata in USA? Che ne pensano di questa bruttona figlia di banchieri a letto per sette giorni col suo fidanzato falso hippy, nel​l’attico​ dell’Hilton Hotel di Amsterdam? In diretta TV? Come mai ha buttato a mare già due matrimoni questa qui? Ma che va cercando, la piccola Yoko?​ Vediamo un po’. Certo che la CIA sta alla finestra. Ma guarda te sto figlio di ​puttana che ​si immischia nei nostri​ affari​. Ma che se ne torni nella sua Liverpool, tra quei muri fatiscenti a fare il chitarrista pop. E poi, che vuol fare, una guerra Giappone-USA? Vuole per caso romperci ​le palle sui diritti umani, sulla libertà? Ma quello lo decidiamo noi. Anzi, lo decide la nostra finanza, non certamente quella nipponica. Povera Yoko, non sappiamo se ci fa o ci è. Di sicuro, non sa cantare. Può liberamente farla ancora, la sua mostra d’arte​, imbarazzante​: un muro dove i visitatori sono invitati a inserire un chiodo (ma che profondità…), oppure la sua classica tela nera con appoggiata una scala … Ma dove se le inventerà, con tutti i suoi soldi…. povera sua madre. Le ha tolto il saluto dopo il secondo divorzio. Povera donna.​ John va eliminato. Di certo Yoko soffrirà. Chi la spingerà più nel mondo dell’Arte? Sarà sola, anzi no. Sarà un’icona. La faremo diventare ancora più grande. La esalteremo, faremo grandi le sue opere, la sua musica. Poverina, un pazzo le causò una grande tragedia. Ora vive dei suoi ricordi, coltiva l’icona del marito come una piantina bonsai. Lasciamola pure nella sua bella casa, davanti a Central Park. Lo faremo dire alle guide turistiche con il naso all’insù. Passando col pullman, ecco, vedete, lì c’è la casa di Yoko Ono. E chissenefrega……​
    Mister Lennon?​ Bang. ​

  • Silvy
    9 Maggio 2019 a 15:40
    Rispondi

    Ricordo come fosse ieri la nostra telefonata di tanti anni fa amica mia ..tutto iniziò da lì.. fiume in piena di parole che non avevano fine ed io che non sapevo come darti una parola di conforto ! “accadde tutto una sera, ero in palestra e dopo aver fatto la mia lezione tornai a casa e la chiamai.. lui per un inspiegabile scherzo del destino era dietro due sbarre.. piangevi disperata e non sapevo cosa dire, fare, pensare! Il giorno fatidico arrivò, mi svegliai all’alba anzi a dire il vero non chiusi occhio. Erano anni che non prendevo la metro ed il solo pensiero di dovermi ritrovare intrappolata in mezzo a mille persone mi spaventava ma per te lo feci. Arrivai davanti la porta d’ingresso, mi iscrissi alla lista dei visitatori ed aspettai il mio turno. Quando mi chiamarono il cuore batteva a più non posso e le gambe mi tremavano. Gioia che ti avrei rivisto e mi sarei accertata che stessi bene? Direi di sì! Entrai in una piccola stanza ed inizia a depositare tutti i miei effetti personali, mi denudarono di tutto ciò che non poteva “entrare” lasciandomi sola, con la mia certezza che non era colpa tua!”

  • Fulvy
    12 Maggio 2019 a 15:02
    Rispondi

    La guardo e ci avviciniamo. Non necessita di parole questo abbraccio. Una calamita. Un’azione irresistibile. Incontenibile.  Lei su di me. Le sue braccia mi avvolgono e mi cingono la schiena. La circondo con le mie. Stesso copione. Nessuna resistenza,  naturalità della comunicazione. Il mondo si ferma e non sentiamo altro che il nostro respiro. Se fa caldo, la pelle si tocca e si appiccica, il profumo  del sapone o l’odore della terra non cambiano l’importanza del gesto. In inverno, il cappotto sa di aria fredda, di gelo esterno che vuole calore, amore, casa. Un abbraccio vale più di tante parole.

  • Fulvy
    15 Maggio 2019 a 08:44
    Rispondi

    Ero piccolo che uscivo in strada. Da solo. Come gli altri. Nessuna paura, si andava da un portico all’altro a giocare con i sassi. O a carte. O “in campagnetta”, la striscia di erba incolta che circondava gli edifici popolari. Potevamo farlo, non c’erano pericoli. Poche macchine in transito, niente loschi figuri nei paraggi. Potevamo ancora conoscere l’altro, il bambino che giocava con noi, e guardarlo negli occhi. Scrutare le sue reazioni, le sue mosse, per agire di conseguenza. Non come oggi, con gli smartphone. La realtà sfugge di mano ai bambini di oggi. Non capiscono chi hanno davanti, gli amici, i nemici, di chi fidarsi e chi no. E poi potevamo guardare loro. Le bambine. Seduti sui muretti, avevamo le nostre ginocchia sbucciate accanto alle loro gambe che spuntavano dalle gonnelline di cotone a fiori; sembravamo già grandi nei nostri discorsi impegnati, facevamo finta di avere delle opinioni da adulti.

    Ha 7 anni Chiara quando il suo papà, come fa spesso, la manda a comprargli le sigarette. Dal portone al negozio, solo 15 metri da percorrere in solitaria. La piccola si accorge che un vecchio (vecchio? chi lo sa?) la sta guardando mentre chiacchera col tabaccaio. Uscita fuori, si sente una persona alle spalle che, appena entrata nel portone, si infila nell’atrio con lei, di rapina. Un attimo: Chiara si volta di scatto e lo vede. Vede lui, il vecchio di prima l’ha seguita, che nello stesso istante le mette da dietro una mano tra le gambe per prenderla in braccio e le propone di accompagnarla a casa. Terrorizzata, la piccola ha il cuore a mille, le si chiude la gola, si divincola in un attimo e riesce a liberarsi mentre lui non insiste. Corre come una pazza su per le scale, sei piani di corsa, i bambini lo possono fare, sì, e corre dal suo papà. Riferito l’episodio, l’uomo resta sorpreso e arrabbiato, decide di non affidarle più commissoni da sola. E’ già cresciuta la mia bambina? Forse quell’uomo non aveva cattive intenzioni. Però Chiara, la mia piccolina, dimostra più degli anni che ha. Al cinema della parrocchia, ci vanno tutti, soprattutto bambini e adolescenti. Che bello, il cinema gratis e tutto il pomeriggio libero. Davanti a Chiara c’è un ragazzo, più grande, che le sussurra frasi sconnesse. Chiara percepisce che c’è qualcosa di sbagliato in quel sussurrare, non sa esattamente che cosa. Però la sua sensibilità le dice di non incoraggiarlo, di guardare da un’altra parte, lei in quel momento semplicemente fa finta di  non essere lì. Passa il tempo e la sua adolescenza è vissuta più come un disagio che come un periodo bello della gioventù. La sua statura, è alta Chiara, la fa notare quando passa. Ma lei non vuole, non cerca l’attenzione. Il suo corpo la imbarazza, lo vedono tutti, ma perchè non posso vivere la mia vita senza tutti questi occhi su di me? Sugli autobus le mani degli uomini ogni tanto tentano l’approccio, che schifo, ma che succede? Si sposta, si divincola e addirittura si sente apostrofare: “Be’? Niente di male…”. Ne prende atto. Comincia la sua vita da donna. Per strada capisce, d’istinto, che guardare davanti a sè significa incrociare gli sguardi degli uomini che a loro volta, se li guardi, si sentono invitati. Va bene, non guardo più avanti. Guardo le vetrine, per terra, per aria. La mia libertà è andata. Loro possono, sì, i maschi, possono tutto. Io no. Nemmeno guardare davanti a me mentre cammino. Inizia a lavorare come impiegata e pure in quel luogo professionale, serio, deve cambiare la sua personalità. Troppo bella. Come mai le troppo belle sono spesso stronze? Perchè si difendono. Chiara infatti capisce che non può essere se stessa, allegra, solare, come è la sua indole perchè ciò comporta un invito al mondo maschile. Qualunque uomo, anche brutto, anche vecchio, si sente adulato se una bella donna gli si rivolge col sorriso e con la dolcezza, con l’intelligenza della battuta, con il capirlo al volo, con la disponibilità. Lui, poverino, crede che questa fata si sia improvvisamente invaghita di lui, chissà perchè, povero uomo stupido, senza qualità, tanto arrogante ed egocentrico da meritare l’allontanamento a vita. Perchè tu, stupido uomo, la inviti a cena? Perchè la offendi sul posto di lavoro? Lei è gentile e sorridente, credi lo faccia perchè ha te davanti? Però è lei che paga il prezzo. Reagisce anche questa volta e cambia. Non lo fa più. Falsa il suo essere, il più profondo, il più bello. La sua spontaneità. Sta ora molto attenta a come parla, a come si atteggia, fa vedere di essere fredda, un vero ghiacciolo. Ma Chiara non è così. La costringe il mondo dei maschi, sempre a caccia, sempre affamati, sempre ciechi di fronte a lei. La donna. Chi è? E’ quella che si innamora, quella che fa figli, colei che manda avanti la famiglia di lei, di lui, di tutti. E’ quella che rivede lo stesso copione ripetuto migliaia di volte. Se sei troppo bella sei mia, se sei troppo capace mi fai ombra e ti devo distruggere. Se sei ferma nei tuoi propositi sei acida, se hai delle ambizioni vuoi fare l’uomo. Se hai delle passioni, non sono le mie. Quanta guerra, quanta fatica, Chiara. La tua intelligenza ti ha fatto superare questi anni di continua allerta. L’uomo non sa. L’uomo non ha la più pallida idea del continuo guardarsi attorno della donna nel corso di tutta la sua vita. Sempre sotto attacco. Sempre preda. No. Il maschio vive come se su questa terra ci fosse solo lui. Lavora, si preoccupa del bene proprio e degli altri, dispone o accetta, viaggia o si riposa, si innamora oppure no. Ma non vive costantemente sotto osservazione. Non sa cosa sia annusare l’aria ogni istante per capire se c’è un nemico in agguato. Posso o non posso fare questo o quello? Non si pone alcuna domanda. La strada della sua vita è dritta, quella di lei non lo è. Chiara deve adattarsi alle situazioni che incontra ogni istante, scegliere la più appropriata, per evitare la catastrofe. Lo saprà, alla fine, se ha agito per il meglio, per sopravvivere. Ma dov’è la bella bambina con le ginocchia penzoloni seduta sul muretto? Il suo sorriso intelligente, i suoi occhi azzurri e indagatori, il suo bel viso raggiante di felicità quando la guardavo un po’ più a lungo. Femmina. Sei meglio, sei più grande di noi. Sai più cose. Sai vivere. Sai lottare. Ti adatti, perdoni, castighi, giochi. Fai più di noi. Ma anche la tua grandezza, oggi, è in pericolo. La giovane femmina che vedo ogni giorno scendere le scale del mio palazzo con gli auricolari e lo smartphone in mano, non conosce la realtà che la circonda. La sua sensibilità di donna è stata assorbita completamente dai socials che segue giorno e notte. Nessun allarme, nessuna deviazione nel suo percorso, nulla da scansare o da rifinire. Non cresce, la femmina che è in lei. E’ morta, purtroppo. E io sono qui, che penso a lei. La guardo, e piango.

  • Hazelnut
    17 Maggio 2019 a 04:06
    Rispondi

    Quanta verità in queste parole…
    sensazioni provate sulla mia pelle ….
    Quante giornate chiuse in casa , rinunciare ad una passeggiata nel parco, uscire di sera , ed è vero si, basta essere gentile o avere un sorriso pronto che subito viene interpretato come un invito…
    E cambi… e stai attenta …. a qualunque stupida cosa devi fare anche a come parlare …
    Tutte noi penso abbiamo provato e proviamo quello che ha provato Chiara…
    Anche la giovane donna con le auricolari immersa nei socials…

  • Fulvy
    19 Maggio 2019 a 21:49
    Rispondi

    Questo maggio piovoso è eterno. La voglia di calore e aria asciutta mi impone di pensare alle mie vacanze al caldo. Pure a novembre, la Giordania è calda. Il deserto di Wadi Rum è rosso brace, così pure la splendida Petra. Non immaginavo di avere un pomeriggio libero, in quella vacanza.  Tanto meno di avere l’occasione di  immergermi nelle calde acque del Mar Rosso. Ci facciamo portare da un taxi, e preferiamo la spiaggia dei “locali”, non dove vanno i turisti occidentali, ma quella frequentata dalla gente del posto. Eccola. Niente di speciale; i giordani piantano la loro tenda sulla spiaggia per la loro privacy e per permettere alle loro donne, che fanno il bagno completamente vestite, di cambiarsi gli abiti bagnati. Sono simpatici, i giordani, e stupiti un po’ della nostra presenza.  Ci offrono semi di melone da sgranocchiare e ci guardano mentre ci accingiamo ad entrare in acqua. Appena dentro, le onde mescolano la sabbia e non mi permettono di vedere sott’acqua un gran che, per cui inizio a nuotare un po’ deluso.  Dopo neppure venti bracciate vengo colpito al cuore da una bellezza inimmaginabile. Sotto al mio corpo, un acquario tropicale si estende a vista d’occhio senza soluzione di continuità.  Centinaia di pesci multicolore danzano attorno a me, di ogni specie e grandezza, mi sorprendono con tinte sgargianti o pungiglioni,  le murene sono azzurre, qui, e i pesci pagliaccio vanno e vengono dai coralli colorati quasi scontrandosi con i pesci scatola e trombetta.  La  mia emozione è fortissima e non vorrei uscire più da quel mondo, un vero paradiso sommerso. Una volta fuori, alcuni ragazzi ci fanno vedere un pesce palla che hanno lasciato sulla battigia. Il povero pesce,  ancora vivo, si è gonfiato per difendersi, e mette in bella mostra le sue ritte spine. Sono emozionato, non credevo di provare una sensazione così netta di meraviglia e ammirazione per quel mondo nuovo, per me sconosciuto. Abbiamo poco tempo, dovremo asciugarci e tornare, che peccato,  vorrei rifarlo, vedremo, forse domani, chissà,  intanto sdraiamoci sull’asciugamano e tra un po’ i taxi verranno a riprenderci. Mi siedo a gambe incrociate e mi guardo attorno.  Le famiglie rilassate, qualche uomo ha messo una sedia nell’acqua bassa per stare comodo e con i piedi a mollo.  Mi volto. Dietro a noi, una famiglia ha piantato la tenda ma sono tutti in acqua a rinfrescarsi. È rimasto all’asciutto solo un ragazzino,  disteso a pancia sotto sull’asciugamano. Avrà 13 anni, più o meno, e ci sta guardando. Il nostro gruppo di amici non è giovanissimo,  tutti oltre la quarantina, ma lui sembra interessato ad una persona in particolare. La guarda insistentemente,  non stacca gli occhi da quella  che potrebbe essere sua madre, o forse anche sua nonna. Elsa è l’unica ad essere in bikini.  Ci hanno avvertito, le nostre guide, di essere non troppo nudi in spiaggia, ma lei non ci ha fatto troppo caso, il suo bikini dalle nostre parti è un semplice e comune costume da bagno come  se ne vedono a migliaia. Ma lì,  ad Aqaba, Giordania, nella spiaggia dei locali,  non se ne vedono affatto. Le donne sono coperte dalla testa ai piedi. Sempre. Lo guardo.  Quel ragazzino mi sta spaccando il cuore, si vede la sua emozione,  il suo stupore, la sua curiosità,  la sua eccitazione,  forse la prima della sua vita. Mentre nessuno si cura di lui, i miei amici parlano e ridono, si muovono, si girano sui loro asciugamani, Elsa si distende, ride, si muove,  tutto il mondo comincia a muoversi e non si ferma più.  Il ragazzino non si accorge che lo sto guardando,  è immerso nel suo sogno, le sue braccia sono nascoste dall’asciugamano che si è buttato sulla schiena per coprirsi,  ed inizia a muoversi piano, i suoi genitori stanno facendo il bagno, i suoi fratelli si tuffano di continuo tra le onde e non lo vede nessuno, no, non lo vede nessuno mentre le sue mani sono nascoste e lui crede di essere da solo, per la prima volta, solo con una donna, quanto sei bella Elsa, io no, non pensavo, non credevo possibile di vedere questo, di sentire questo, è un miracolo,  che succede, non mi vede nessuno, nessuno, nessuno.
    Quanta tenerezza in quel bambino. Il suo volto è diventato rosso, si calma piano, gira il viso dall’altra parte, forse piange, forse ride, chi lo sa.  
    Questa giornata è stata emozionante per me. Il paradiso marino che ho appena visto , rimarrà nella mia mente e nel mio cuore per sempre. 
    Questa giornata è stata importantissima anche per lui. È diventato uomo. La  visione di quella straniera svestita gli ha aperto un mondo che rimarrà nei suoi ricordi per tutta la sua vita. Anche Elsa ha trascorso una giornata indimenticabile.  Ha emozionato un giovane uomo fino all’estasi, senza saperlo. 

  • Fulvy
    24 Maggio 2019 a 06:49
    Rispondi

    Cos’è? È un piacere, un momento di voluttà che dura più di un attimo.  Il suo profumo è inconfondibile, inimitabile,  vero. Riscalda il corpo e lo spirito, ti fa ridere o piangere. Quando lo senti, lui non ti lascia mai indifferente, ti arricchisce,  spesso ti sorprende, raramente ti delude. Scelgo la versione bianca quando ho caldo,  quando converso, quando la mia mente ha bisogno di volare. Quando voglio l’infinito davanti a me, e non sento ostacoli, quando voglio capire il mondo, gli altri. La versione rossa è altra storia.  Il colore del sangue non può che rimandare al cuore, al nostro io, a chi siamo, a cosa vorremmo fare. La nostra intimità è racchiusa lì, in quel calice di cristallo che ricorda un tulipano. Gli aromi dei frutti di bosco non lasciano dubbi. Siamo noi, maturi, scuri, pieni di succhi da spremere e di esperienza. Se solo qualcuno ci stesse ad ascoltare.

  • Fulvy
    25 Maggio 2019 a 15:49
    Rispondi

    Splendido  e soleggiato sabato. Decido di fare un po’ di spesa. Il mio “buongiorno” all’unica commessa del negozio di frutta a verdura non è seguito da alcuna risposta. Prendo il sacchetto di nylon e comincio a selezionare le foglie di spinaci.  Mi piace il self-service di questi nostri tempi: ti permette di selezionare, e sezionare, verdura e commessa. La guardo. Una brunetta sui 25 anni, carina,  ma assolutamente fuori contesto.  Non le piace il suo lavoro, chissà cosa vorrebbe fare. È trasandata,  pallida e senza trucco,  non ritiene  che l’ambiente o la clientela meritino un po’ di cura del suo aspetto. Non sta uscendo con gli amici, nè sta scattandosi un selfie in posa plastica. No, qui sarebbe tempo sprecato. Anzi, probabilmente li vuole punire quei quattro stronzi che vengono lì a fare la spesa per spendere meno.  Massimamente vecchi. Persone anziane che lei sente lontanissime e con le quali non vuole alcuna empatia.  Che meraviglia, la natura. La foglia grande degli spinaci, quelli in cespo, è talmente interessante da farmi sospettare che il Padreterno voglia,  tramite la sua osservazione, comunicarci qualcosa. Certo le sue costolature sono lì apposta per far scorrere meglio la pioggia sulla sua superficie, per bagnare le radici, e far crescere bene, per il nostro palato, questa assoluta bontà. Così credo che la giovane  commessa potrebbe pure lei gratificare la natura e il mondo che la circonda, solo mettendosi un po’ a posto. Sorridi qualche volta, cara, aiuta gli anziani  che entrano qui ad avere un po’ di gioventù nella loro grigia giornata, non ti costa nulla e magari se scambi qualche parola con loro ti divertiresti pure e le ore passerebbero veloci. Muso duro, niente da fare. Impila cassette di legno piene di fragole profumate mentre la radio intona “My sweet Lord”. La guardo, e non resisto. Mi piace rompere i coglioni alla gente, soprattutto quando la mia giornata è positiva.  Faccio il bastardo,  ma a fin di bene. Chissà perché sono convinto  che gli altri dovrebbero capire il senso delle mie provocazioni. Ma sono fatto così,  so che la brunetta sbaglia e so che vive male, anche per  colpa sua. Parto all’attacco. Mi avvicino con gli spinaci in mano e la fisso sornione fino a quando si decide a guardarmi. Le chiedo, piuttosto deciso, ma sorridendo,   indicando con gli occhi gli altoparlanti: “Lei, ovviamente,  sa chi cantava questa canzone, vero?”. La ragazza continua a guardarmi inespressiva. Io rimango in attesa e lei, a questo punto, non riesce a non tentare una risposta: “Non so. Mi vengono in mente i Beatles…”. Le sorrido apertamente, la guardo con tanta intensità da trafiggerle le pupille e non mollo la presa….Siamo già a un buon punto. Continua il mio interrogatorio: “Beatles, esatto…quindi?”. La pallida lascia perdere le fragole, si sente già un po’ fuori dal negozio, all’aria aperta, forse a fumarsi una sigaretta rilassante. Decide la risposta da darmi e si butta: “John Lennon?”. “NO!” Sentenzio soddisfatto. “Quasi!”, continuo: “è George Harrison !”. Non voglio torturarla ancora,  mi basta il suo sforzo che mi apre la porta del suo cervello. Lei ora è pronta a sentire il finale. Quanto meno si è accorta di me. Non sono una parete,  uno scaffale pieno di frutta. Sono un uomo che le sta parlando. Anzi, una persona che vuole comunicare qualcosa. Lei va alla cassa, sa che devo pagare. Appoggio gli spinaci sul bancone e continuo. “Capisce – le spiego – quando uno va in India, e i Beatles sono stati, in India, (la radio continua ad un buon volume, I really wanna see You…I really wanna be with You….) quando torna qui si mette a scrivere una canzone”. La bruna mi guarda nuovamente scettica e indicandomi l’importo da pagare replica: “Ah,… è così che funziona?”. “Certo, funziona così”, dico io, prendendo il resto. “Tutti quelli che partono per l’India si sentono diversi, poi quando rientrano qui…. (e la radio: Hallelujah….) … torna tutto come prima”.

    Che dirti, bella ragazza?  L’erba voglio non esiste. Hai un lavoro, in tanti non ce l’hanno. La crisi sta facendo aumentare i poveri e i disperati. Gli autobus sono pieni di uomini che puzzano di alcol perché hanno perduto il lavoro e sono umiliati, scoraggiati,  senza futuro. Tu sei giovane, bella, sana. Ti prego, esci da casa truccata e vestita bene  come per andare ad un appuntamento importante. Perché questo è,  il tuo lavoro: una cosa importante. Vivi questo impegno con leggerezza, chiacchierando un po’ con i clienti e guardando con benevolenza chi il lavoro non ce l’ha o è alla fine della propria vita. Fallo, ti sentirai meglio. I really wanna see you, Hallelujah. 

  • Fulvy
    30 Maggio 2019 a 21:32
    Rispondi

    Giovanni mi parla ancora una volta dei suoi problemi. Non è facile gestire una donna come lei. Francesca è sua sorella. Intelligente e colta,  ha una laurea in lettere ed è sempre un piacere parlarle. Ha il senso dell’umorismo quella ragazza, e la battuta pronta.  Certo, per me è facile. La incontro solo per caso ogni tanto, quando sta bene,  ci parliamo per qualche minuto e finisce lì. Per suo fratello, no. Per lui non finisce con una semplice  chiacchierata in gelateria.  È lui che la segue, da anni ormai, cercando in tutti i modi di aiutarla.  Difficilissimo.  Qualche volta ci riesce, qualche volta no. E allora ricomincia tutto da capo. Ricoveri,  terapia pesante, Basaglia è morto e se ne frega di Francesca. Ma quando era vivo, Basaglia se ne fregava pure di quelli come il mio amico Giovanni. Per lui contava il paziente,  la sua libertà,  compresa quella di essere libero di contagiare gli altri. Sì, la pazzia è una malattia contagiosa.  Basaglia ha costretto i familiari dei malati a prenderli in carico, convincendo i “sani” che tutto andava bene, che non c’era da avere paura, perchè il malato non c’è più, non esiste la pazzia, siamo tutti uguali.  Provaci. Prova a vivere col matto. Come fai,  tu, ad aiutare chi soffre di una malattia mentale? Semplice. Per capirlo devi entrare nella sua testa, nel suo modo contorto e impossibile di ragionare, nelle sue domande e nelle riposte che si dà. Non esiste altro aiuto. I farmaci lo calmano, lo tramortiscono, ma non lo aiutano. Quindi sei tu che agisci. Per amore, per pietà, per rabbia. E cominci. Comincia la tua vita differente,  lontana dagli altri, che non ti capiscono, non possono. Non puoi tu, farti capire.  Sei preso, ormai. Giovanni, non sei tu: sei lei. E lo sai, me lo spieghi,  la dinamica è chiarissima, come questa coppa di gelato alla crema. Non posso fare nulla per te. Per voi due. Forse pregare. 
    Quando ero in Birmania ho scoperto un sistema diverso per chiedere la grazia. Parlare con gli spiriti è un sistema pratico e molto usato laggiù. Chi ha bisogno, prepara un’offerta e si reca nella sala predisposta vicino alla pagoda. Dopo aver scelto lo spirito adatto, tra diversi disponibili, viene chiesto agli officianti di celebrare il rito.  Questi uomini preposti alla cerimonia sono gli unici esseri viventi in grado di collegare il nostro mondo  con quello degli spiriti. Sono gli omosessuali.  Una mezza dozzina tra ragazzi e uomini,  vestiti da donna e pesantemente truccati iniziano a camminare in circolo in senso antiorario, cantando assieme e accompagnati musicalmente  da una coppia sullo sfondo, un uomo e una donna, che battono ritmicamente dei tamburi urlando a squarciagola. Vengono scossi dei rami pieni di foglie sulla frutta  e sul cibo che verrà disposto ai piedi della statua dello spirito invocato. Poi, da una tinozza colma d’acqua, vengono presi con le mani due pesci vivi che per qualche attimo saranno appoggiati sulle foglie verdi appena benedette, poi ributtati nel secchio per non farli morire.  Alla fine, il tamburo, i canti e la frenesia con le braccia alzate si fermano, tutto sembra tornato tranquillo, l’invocazione laica è stata fatta. 
    Ecco, mi piacerebbe invocare lo spirito dei matti. Che faccia stare meglio Francesca, che non faccia stare male Giovanni. Il sistema manicomiale in Italia andava cambiato, certo. Basaglia è riuscito a togliere l’orrore dagli ospedali,  sì, ma quando ha cancellato il concetto di “pazzo” , unificando questa patologia a tante altre,  ha sbagliato. Pazienti e familiari sono stati sciolti dalle catene, creando nuovi malati mentali. Genitori, fratelli, psichiatri, infermieri, vicini di casa. Tutti contagiati.
    Ecco, avrei bisogno di uno spirito da invocare.  Farei un rito con offerte e canti, affinché Francesca e Giovanni si possano salvare.
    Più efficace, il rito sciamanico della dottrina basagliana.

  • Fulvy
    5 Giugno 2019 a 13:19
    Rispondi

    Ti mastico. Anzi no, prima ti voglio conquistare.  Ti faccio credere che sei il mio tipo,  unico, intelligente e capace. Sei bravo e indispensabile,  ti proteggerò io, stai tranquillo,  resta con me, starai bene.  Ti mordicchio un po’, giusto per farti venire voglia e vedo che ci stai, ti piace e ti lasci conquistare. Faresti di tutto per avermi. Le mie promesse sono allettanti,  lo so, sembrano confezionate apposta per te, per farti felice. Quindi ti mangio, inizio a masticarti piano per non perdere nulla del tuo sapore, voglio tutto da te e mi dovrai pure ringraziare, dopo. Non chiedermi pause, ti prego,  non lo fare.  Quando comincio, io non smetto più, e tu lo sai. Alla fine rimarrai stanco, senza energie nè desideri, uno straccio. Qualche volta vado a curiosare tra i miei vecchi amori. Li vedo tranquilli nei caffè, nei bar, qualche volta chiacchierano seduti su vecchie seggiole di legno, fuori dalle loro case, così, in strada. Tutti li credono dei perditempo, senza interessi nè passatempi. Ma non è vero, non è vero per niente. Maledizione. Ho fallito, con questi.  Hanno capito tutto e non si sono fatti fregare. Ho avuto una “soffiata”. Mi hanno detto che stanno benissimo, meglio. Soprattutto si sono liberati di me. Pensa un po’, da non credere.  Non tutti, sia chiaro. Ma qualcuno non l’ha bevuta. Ho fatto il possibile per convincerli che senza di me loro non sono niente, non sanno niente, non otterranno niente. Li ho fatti miei schiavi e pure i loro amori, le loro amicizie, i rapporti umani li ho imbastiti io, ad uno ad uno. Qualcuno, certo, è convinto di non esistere se non è assieme a me. Non sa coltivare i rapporti con gli altri,  non è abituato a tessere la trama dell’amicizia senza di me, che rompo il ghiaccio, li accoppio a casaccio e riempio le loro vuote giornate.  Ma questi anziani che vedo qui rilassati se la spassano alla grande. Ci sono riusciti, stanno vivendo, senza di me, ohibò, chiacchierano, giocano a carte, vanno al cinema, in gita, leggono. Qualcuno vuole imparare addirittura qualcosa di nuovo. Prima non è stato possibile.  Per causa mia.  Io non lo potevo permettere. Non è il mio stile. E poi sapevo che senza di me si sentivano persi, inutili. Devo migliorare, devo impegnarmi di più.  Ho tanto da fare ancora. Come? Oh, mi scuso, non mi sono neppure presentato. Sono il Mondo del Lavoro.

  • giogiasir
    6 Giugno 2019 a 13:47
    Rispondi

    ” L’elettronica senza la cultura e la civiltà,
    è come una enorme biblioteca senza libri,
    come un enorme dispensa piena di involucri di plastica,
    privi di contenuto. ”

    Giorgio Giasir
    06/06/2019

  • Fulvy
    11 Giugno 2019 a 15:13
    Rispondi

    Si alza, e se ne va. Ogni settimana la stessa incredibile scena. Ed io qui, a pensarla, a pensarci, a sedermi nuovamente a questo tavolo per osservarlo attentamente. I bicchieri vuoti, le salviette usate, qualche posata, piatto, oliera, il libro da commentare, fogli stampati dal web per discutere l’attualità. La tovaglia è pulita, non facciamo disastri, noi, nel mangiare. Bravi. Sempre. Se ce n’è rimasto, finisco il poco vino e continuo a ripensare alle due ore appena trascorse. Voglio bene a quella ragazza. La mia sorella preferita. Lei è la mia famiglia, il mio cestino dove buttare me stesso quando ne ho voglia, e sono io pure il suo cestino, quando vuole, se lo vuole. Ma lei è anche l’altare dei nostri discorsi da platea vasta, lo scaffale delle nostre coppe, delle sue e delle mie, i premi conseguiti dopo attento esame del mondo e sentenza unica.  I nostri pranzi sono la continuazione perfetta del rapporto finito troppo presto con il nostro caro papà. Papà. Papà, papà, quanto mi manchi. Quanto mi manco io, a chiamarti papà. A telefonarti, a trovarti, a parlarti, sempre. La tua fisicità, la tua gestualità, la tua voce. Ti vedo ogni tanto per strada, non sei tu, ma la mia mente vuole vederti, qualcuno ti assomiglia, o forse no, ma io sì, ti vedo, sembri tu, e non è vero. Sempre pronto a raccomandare, a ricordare, l’importanza di questa nostra famiglia, dovete, dovete farlo, non perdetevi per strada, è brutto, è bruttissimo, fratelli che non si parlano e non si frequentano più, non voglio, non voglio che succeda mai, mai, non fatelo. No, papà, non lo facciamo. Ci vediamo io e lei sempre, ogni settimana, caschi il mondo, sempre, sempre. Parliamo di tutto, come con te, caro papà, di tutto, di politica, delle nostre esperienze quotidiane, della città, e così pure ci arrabbiamo, ci scaldiamo gli animi,  ci critichiamo, ridiamo a crepapelle, fino alle lacrime,  ci amiamo. Sei tu, sei stato tu ad insegnarci questo, la dinamica degli affetti, dell’amore. Quanto sei stato bravo, quanto sei stato papà. Noi, noi eravamo sempre per te la prima cosa. La prima, prima di te, prima della mamma, prima di tua mamma. Quanto hai dedicato agli altri tu? Tutto. Troppo, qualcuno non lo meritava. Ma non fa nulla, sai? Hai lasciato un vuoto che nessuo può riempire nè capire cosa sei veramente stato. Ero piccolo che sentivo la tua domanda alla mamma: “pomeriggio libero! che bambino mi dai che andiamo a spasso?”. Stupendo, sempre assieme, sempre con te, sempre in giro, i pochi momenti liberi dal lavoro. Osservo i papà di oggi, anche nel mio palazzo, gente che conosco bene. Non vedo quel papà, non vedo quelle passeggiate, quel continuo esibire con orgoglio agli amici i propri figli, i propri bambini. Sono genitori moderni, questi, e i loro bambini non hanno il bisogno nè il tempo di andarsene in giro ad imparare qualcosa col loro papà. Hanno i corsi di lingue o violino, vanno a calcio o a danza, sanno tutto di computer e facebook. Tra compiti e socials non possono andarsene fuori col papà, questi bambini. E neppure lui ha tempo. Finito il lavoro deve scaricarsi, andare in mountain bike, in palestra, a fare il corso di sub. Magari dall’amante. Che famiglia è, che famiglia sarà? Porto la roba in cucina, sistemo il tavolo e metto a posto ogni cosa. Pronto per la prossima volta, per il prossimo pranzo, di nuovo, assieme. 

    1. giogiasir
      13 Giugno 2019 a 20:28
      Rispondi

      Grazie Fulvy, “Anonimo artista della battigia” che ci regali queste splendide emozioni attraverso i tuoi scritti coinvolgenti e intrisi di vita e significato profondo! 😉 Grazie <3

  • Fulvy
    21 Giugno 2019 a 07:10
    Rispondi

    Questi ragazzi oggi hanno tutto, hanno troppo. Smartphone e svaghi, serate fuori e vacanze. Sembro il solito rompicoglioni, perchè non dare un po’ di felicità a questi giovani? Noi non avevamo nulla!  Appunto. Noi a vent’anni non eravamo già stati in vacanza a Londra, a Barcellona, ad Amsterdam. Protesto sempre contro questa consuetudine che sento,  dentro di me, profondamente diseducativa. Vedo tante scolaresche in vacanza qui per la visita alla mia città. I genitori sborsano  volentieri un po’ di soldi per mandare in ferie quei casinisti dei loro bambini, si godono un po’ di pace. Ma io non vedo alcun interesse nei loro occhi per le mie strade, i miei palazzi, la mia storia. Bambini e ragazzi dovrebbero essere portati a visitare ben altri luoghi. 

    Conosco realtà scomparse che tornano in vita grazie al volenteroso lavoro di qualche entusiasta che ha ripreso in mano l’agricoltura, l’artigianato,  la carpenteria,  la falegnameria, l’allevamento. Portateli lì, in visita. Lasciate perdere Venezia, Firenze,  Pisa, Roma. Quando saranno grandi potranno apprezzare da soli la
    grandezza di quell’arte e del suo popolo. Ora fateli imparare.  Fateli scoprire il mondo e la creazione del benessere attraverso il proprio lavoro. La passione per qualcosa, per un progetto che inizia e si sviluppa,  che porta avanti il pensiero,  la curiosità. Un sogno da immaginare e costruire piano piano con le proprie mani. 

    Stamattina alla radio il grande tennista Nicola Pietrangeli ricorda il suo esordio. A lui piaceva anche il calcio, moltissimo. Il giornalista allora gli chiede: come mai quindi ha scelto il tennis? E Pietrangeli gli risponde che a quei tempi soldi ce n’erano pochi e siccome col tennis avrebbe potuto viaggiare, scelse appunto questa disciplina. Viaggiare. Una grande opportunità,  che va guadagnata. Con il lavoro, con l’impegno,  con lo studio. Così è nato un campione dello sport.  Così nascevano i grandi campioni dell’Unione Sovietica,  anche loro volevano viaggiare e solo lo sport di regime gli dava questa possibilità. È per questo che non abbiamo più grandi campioni nello sport, in Italia. Manca lo stimolo, la meta da raggiungere, hanno già tutto i nostri ragazzi. Nessun progetto da realizzare, piano piano, con le proprie forze. Nulla da sognare perchè nulla gli è stato fatto vedere come un modello di crescita,  qualcosa di possibile,  qualcosa da costruire, da guadagnarsi, da amare.

     

  • Fulvy
    28 Giugno 2019 a 19:35
    Rispondi

    Ti guardo ancora una volta, e finalmente capisco. Tu, natura, non sei semplicemente tu. Tu mi manifesti il sacro, il divino. Sei un simbolo sensibile del soprasensibile. Un mantra per me. Per l’uomo che ha sete di conoscenza. Sempre presente, per chi sa vederti. Dovunque.

    1. giogiasir
      1 Luglio 2019 a 21:47
      Rispondi

      avvolte basta un solo attimo ed è tutto chiaro

  • Fulvy
    5 Luglio 2019 a 20:51
    Rispondi

    Scendo le scale di corsa,  è tardi. Tanto per cambiare.

    Ma non faccio in tempo a raggiungere il portone perchè vengo bloccato da lui. Il signor Claudio vive nel mio palazzo, si sveglia all’alba e me lo trovo sui pianerottoli alla mattina presto. Persona riservata e intelligente,  è molto anziano e arguto.  Mi blocca  spesso quando meno me lo aspetto per parlarmi di filosofia e stamattina ha voglia di farmi arrivare tardi in ufficio. Non vede, o non capisce, che ho fretta.  La sua disattenzione però non è cattiveria, anzi, ho l’impressione che lo faccia apposta,  apposta per me, per suggerirmi velatamente che quel mio correre, in definitiva, ogni mattina, ha poca importanza. Così inizia, dopo un sorridente “buongiorno “, a farmi partecipe del suo ragionamento.  “Vede – mi guarda dritto negli occhi, a un palmo dal mio naso e dal profumo del mio dentifricio – oggi pensavo al riscaldamento globale e all’innalzamento del livello dei mari….”  Cavolo, penso, sono le sette di mattina, a che ora si alzerà quest’uomo? Claudio si allontana da me leggermente e si toglie gli occhiali. Con un fazzoletto da naso perfettamente pulito e stirato inizia a passarlo sulle spesse lenti: “Nel porto stamattina arriveranno due navi da crociera. Ognuna ha 92.000 tonnellate di stazza. Lei capisce lo spostamento di acqua? Solo per queste due navi, il livello globale del mare salirà di 184.000 tonnellate!”. Ancora non capisco dove vuole arrivare. Per non offenderlo,  mi scoccia guardare l’orologio per sapere che ora è. Sembrerebbe che mi stia importunando, e non è vero. Anzi, conoscendolo un po’, so che le sue esposizioni sono sempre puntuali ed interessanti, e voglio vedere come va a finire. “Sicuramente – continua – lei ricorderà il principio di Archimede: un corpo solido immerso nell’acqua fa aumentare il suo livello tanto quanto è il volume del corpo immerso…”. Lo osservo ripiegare il fazzoletto,  che rimette in tasca mentre con l’altra mano inforca gli occhiali. Ha gli occhi azzurro cielo, Claudio. Non l’avevo mai notato. So che arriverò tardi in ufficio, stamattina, e credo lo sappia anche lui. Fa una piccola pausa,  forse vuol capire se ci sto arrivando da solo, al gran finale. “Lei sa di quanto è aumentato il traffico marittimo e fluviale negli ultimi decenni?”. Si apre la porta del secondo piano ed escono i bambini della giovane tedesca da poco arrivata. Guten Tag, bei bambini, buongiorno,  fate piano,  non correte. “Una quantità di navi-cargo mai vista prima! Traffici di tutti i tipi, enormi navi porta container,  un peso inimmaginabile,  centinaia di migliaia di tonnellate di acqua spostata, più navi gasiere,  petrolifere, navi cariche di metalli,  derrate, macchinari, navi da crociera, militari, traghetti, tutto centuplicato, ma quanta acqua hanno spostato queste navi secondo lei? Se pure i ghiacciai si sciolgono,  nulla da dire. Ma non è il riscaldamento la causa dell’aumento dei livelli del mare. Troppo poca, l’acqua dei ghiacciai. Il vero innalzamento del mare lo fanno le navi, sono troppe,  troppo pesanti, troppo grandi”. Lo guardo e gli sorrido. I suoi occhi intelligenti sanno che lui può fidarsi di me. E fa bene.
    Claudio, arriverò tardi in ufficio, oggi. Ma per merito tuo.
    Grazie, prezioso amico. Per tutto quello che, fino a oggi, hai saputo regalarmi.

     

     

  • Fulvy
    14 Luglio 2019 a 08:57
    Rispondi

    Osservo con interesse le volute di vapore che salgono dalla ciotola piena di profumato brodo caldo. Questa stupida influenza mi ha inchiodato al letto. Stavolta mi sono fatto fregare ed eccomi qua, in pieno giorno, sotto le coperte. La casa è silenziosa, dentro e fuori. Lei è uscita per andare al lavoro ed è questa la prima volta che ho il tempo di pensarla nel suo ambiente, in ufficio, tra computer, fascicoli e colleghi. Che starà facendo? Perchè me lo sto chiedendo solo adesso? Non la penso mai nel suo posto di lavoro, non so perché,  me la immagino piuttosto qui, che cucina o riordina, risolve tutti i piccoli e grandi problemi quotidiani,  parla al telefono, ascolta buona musica, segue i familiari,  fa la spesa…Che strano, non capisco, faccio fatica ad immaginarla al lavoro. Eppure ride e parla con passione anche quando è fuori,  certo, come fa qui con me. È lei. Ma perchè non l’immagino nel suo ufficio mentre lavora,  discute, organizza? Fa tutto come sempre? Gesticola,  si muove, butta indietro la testa per scoppiare a ridere pestando con un piede il pavimento,  mette una mano su un fianco, tiene il telefono tra spalla e mento, scuote la testa?

    Il primo sorso di brodo è una poesia. Più del solito, perchè oggi sono qui, da solo, e la casa è vuota. In questo momento lei è occupata come ogni giorno a quest’ora, ma io non me ne sono mai accorto. Quando lavoro la mia vita è assorbita dall’ambiente e dall’impegno,  non mi soffermo sulla sua stessa situazione, preferisco pensarla qui in casa, che si occupa della nostra vita. Invece no. Lei non è mia. La sua vita le appartiene, dentro e fuori casa. Sono io che non la voglio condividere con gli altri, con il mondo. Ma che sto dicendo? Forse sono geloso? O forse ho solo paura di stare solo? Avrò due linee di febbre, non so…. Sembra che una lieve influenza, una piccola deviazione nella mia quotidianità, mi faccia aprire gli occhi sul mondo che io non vedo mai, chiuso in fabbrica nove ore al giorno. Che peccato aver bisogno di star male per potere aprire gli occhi. Troppa pressione…sì, sarà questo. Non ho paura della solitudine, è solo questo malessere passeggero che mi accarezza il cervello e mi dà strani pensieri. Non voglio possedere le vite degli altri, nemmeno la sua. Voglio il meglio, semmai, per lei e per le persone a cui tengo. Ma è difficile staccarsi dai propri bisogni. La mia necessità di lei deve essere bilanciata dalla mia volontà di non soffocarla,  di lasciarle spazio, di accettare lei in mezzo agli altri.  Di condividerla, in un certo senso, col resto del mondo. Ma si può? Non lo so. L’amore fa strani scherzi, ci costringe a vederci isolati, racchiusi in un mondo diverso e separato, dove addirittura il nostro pensiero rifiuta l’altro senza di noi. Dove mette le sue cose? I suoi cassetti…come li ha riempiti? Com’è  fatto lo specchio del bagno, dove si controlla il trucco, i capelli? Parla, discute, ride…tutto senza di me. Che silenzio in questa casa, stamattina.  Finisco di sorseggiare quel nettare liquido che mi ricorda di essere qui, a casa nostra, al caldo. Gli occhi degli altri, i loro pensieri su di lei, sul lavoro che svolge, su come  è vestita oggi: tutti particolari importanti che non sono registrati nel mio data-base.  Sfuggono al mio controllo e giudizio,  dovrebbero essere miei e suoi, ma non è così. Mi devo rassegnare, sono fette di una torta che non è mia, non lo è mai stata nè lo sarà mai.
    Mi bruciano un po’ gli occhi e decido di dormire, quando suona il telefono. “Ciao tesoro, va meglio? Saperti lì…Mi viene voglia di mollare il lavoro e di tornare a casa subito, che dici? Stiamo a letto tutto il pomeriggio, vicini vicini….vuoi?

    1. giogiasir
      16 Luglio 2019 a 15:48
      Rispondi

      Meraviglia <3, grazie Fulvy

  • giogiasir
    16 Luglio 2019 a 15:55
    Rispondi

    La parte più piena,
    forte e bella della vita stessa
    è l’incoscienza,
    l’inconsapevolezza.

    Lì dove tutto agisce,
    dove tutto acquista senso,
    dove i sentimenti fioriscono,
    dove le anime crescono.

    Giorgio Giasir
    16/07/2019

  • Fulvy
    27 Luglio 2019 a 14:38
    Rispondi

    Un’attesa. In una sala d’attesa. Il medico è occupato. La sala è colma di gente. Mi chiedo perchè. Perchè la gente va così spesso dal medico?  È una reale necessità o forse hanno tempo da perdere? Forse, sono soli. Specialmente se anziani. L’anziano ha fame di affetto e anche di qualcuno che ascolti i suoi problemi. In che cosa abbiamo sbagliato? 

    Ho visto gli anziani in Estremo Oriente. Vedere un vecchio o una vecchia sorridere è cosa normale.  Sembra che vivano bene. Più di noi. Certo  laggiù il clima è mite,  mai freddo, mai ghiaccio o neve, mai vento gelido. Ma la vita è qualcosa di più che una temperatura tiepida.  Qui, noi semplicemente rifiutiamo la morte. Non lasciamo entrare quell’idea incredibile. La rifiutiamo, con tutto il nostro impegno. Consideriamo il nostro corpo come un’icona,  sempre forte, sempre bello,  sempre sano.

    Laggiù, la gente vive una vita diversa. Loro hanno la legge della metafisica come regola di vita e niente può intaccare la loro esistenza reale.  Loro non hanno paura,  nè da giovani nè da anziani. Il corpo è un sostegno per un periodo di tempo dove Brahma (il cosmo, il tutto-universomondo-la vita precedente) usa le nostre energie. Come un cibo. Il cibo. Questo è il motivo per il quale gli orientali offrono del cibo agli Dei. Noi siamo il Loro cibo. Dopo aver compiuto il nostro dovere, possiamo tornare all’inizio, e vivere di nuovo fuori. Per sempre.

  • Fulvy
    11 Agosto 2019 a 14:02
    Rispondi

    Quando sono stanco divento irritabile ed aggressivo.  Non mi va bene nulla e tendo a prendermela con chiunque. Il caldo di questo periodo peggiora la situazione. Decido così di andarmene al mare,  un bagno mi farà bene.  Appena mi immergo mi sento meglio ma quando esco vedo già il mio lettino circondato da ragazzi e donne che chiacchierano.  La pace è già finita e sono appena le 9.30. Dormire un po’ o leggere il mio interessante libro? Neppure a parlarne.  Le due ragazze dai fianchi perfetti che ho appiccicate alla mia destra hanno già deciso per me. Non si vedono da un po’ e senza un attimo di tregua riempiono l’aria con i loro discorsi, centinaia di vocali e consonanti sparse qua e là, fiumi di dati per me inutili mi colano addosso come una melassa. Sono spacciato.  Alla mia sinistra si sono già sistemati dei ragazzini terribili che, forti della loro scatenata energia,  stanno progettando la loro guerra in mare: sarà battaglia per tutta la giornata, tra grida e schizzi, incuranti degli altri bagnanti, passivi come me. Ci guardiamo l’un l’altro come per cercare aiuto. Ma indifferenza o pigrizia non servono , e la situazione non cambia. Forse nessuno vuole rovinarsi la giornata con le proprie mani, sgridando i ragazzi e pretendendo un po’ di educazione. Preferiscono farsela rovinare, come me. Facciamo tutti le vittime, ci lamentiamo mentalmente, senza agire. Così osservo il posto. È pieno di gente, tutta l’umanità sembra riunita qui, oggi. Saranno nervosi anche loro, questi umani? Saranno stressati, preoccupati,  stanchi? A vederli, sembrerebbe proprio di no. Nulla sembra toccare l’animo di questa massa viva e in costume da bagno. Chiacchere a fiumi, spesso vuote, servono per caso a curare l’anima di questa gente? Forse sì. Beati loro. Sono fortunati. Una chiacchierata superficiale…e via! Felici! Una bella giornata.  Per loro. Come fanno? Io non ci riesco. Sarò complicato,  difficile, pazzo, chi lo sa. Sembro solo. Mea culpa.  A fine pomeriggio sento che ho fatto il pieno: le nozioni giunte al mio cervello dai miei vicini di ombrellone sono molte e del tutto inutili. Provvederò stanotte a cancellarle dalla mia mente, con una buona dormita. Mi metto in macchina per tornare a casa. Sono le sette di sera, la costiera è ancora stracolma di bagnanti e il traffico è intenso. Fermo in coda, guardo il mare e mi accorgo di un lento ma costante avanzare di bolle o schiuma, un movimento in superficie che non codifico.  Non possono essere grandi pesci,  tutti assieme…no…ma che è? Per la miseria,  sono centinaia di persone che stanno nuotando ….ma che fanno? C’è un leader davanti, che li guida e si volta ogni tanto per controllare il gruppo. Ora capisco…sono le manifestazioni del Comune per far divertire i cittadini. Un po’ di nuoto, un po’ di yoga in pineta, le campane tibetane…Guardo. Guardo ancora i nuotatori, tantissimi, che si fanno tutto il lungomare a crawl,  alle sette di sera.  Felici. E io qui, in macchina, in coda. A guardarli, a sorridere di questa idea, ad apprezzare il movimento della superficie del mare al passaggio di quelle centinaia di braccia, il mosso luccichìo del sole riflesso, una scena mai vista finora. Saranno contenti questi sportivi o dilettanti, alla fine. Una semplice nuotata in gruppo, di sera, sul litorale pieno di bagnanti e turisti che guardano rapiti quello strano movimento d’acqua, quella sincronia e compattezza,  quella voglia umana di sentirsi vivi e in forma, e farla vedere a tutti. Anche a quelli come me, chiusi nell’abitacolo di una macchina, in coda, col caldo, che invidia il loro stare in ammollo proprio ora, qui, a due passi. Avranno ragione loro? Avranno ragione il Comune, le associazioni, i clubs…? Ma sì, forse sì: viva la leggerezza, la superficialità,  la chiacchera vuota, il sentirsi “parte di” qualcosa…qualcuno…
    Sono io quello sbagliato. Io, quello a cui non bastano le manifestazioni, le chiacchere, lo yoga. Io, che oltre il tremolante movimento dell’acqua in superficie,  provocato da centinaia di bracciate, rimango a bocca aperta perchè sono il solo a scorgere al largo, forte della disattenzione di tutti,  uno splendido delfino lucido che esce sbuffando in controluce. Grazie, elegante tursiope, per avermi ricordato che non sono solo. Ci sei anche tu, a farmi compagnia e darmi ragione.

  • giogiasir
    21 Agosto 2019 a 19:40
    Rispondi

    Inutile costruire mondi virtuali quando il
    nostro di mondo “reale” viene sommerso
    dalla nostra immondizia
    e stremato dalla nostra noncuranza…
    Matrix non esiste.
    Esistono legami, esiste comunicazione viva, vera.
    Bisognerebbe toccare con mano la tristezza
    e la desolazione reale della natura,
    per imboccare la strada della sapienza
    ed abbandonare la becera strada dell’ignoranza selettiva.

    Giorgio Giasir
    21/08/2019

  • Fulvy
    1 Settembre 2019 a 08:10
    Rispondi

    Meglio non farlo. Ma lo faccio.  Come tutti. Vado sul web e mi faccio male. Terrorismo e stupri,  malavita organizzata,  i giganti della rete, i ricchi del mondo.  Il riscaldamento globale e la catastrofe.  I poveri al nostro fianco,  l’indifferenza,  gli animali abbandonati,  i bambini sottratti ai genitori,  la politica impotente,  connivente,  marcia. Il crollo delle borse, il sistema malato, i giovani delinquenti, le bande, la droga. Sono felice di non essere più un ragazzo e di non avere tutta una vita davanti. Questo mondo non mi piace. Lascio la tastiera, mi alzo e mi affaccio alla finestra aperta. Qualcuno sta cucinando e mi arriva un delizioso aroma di peperonata. A mezzogiorno il vento cambia sempre e a quest’ora mi rinfresca il viso, in silenzio.  Sento il profumo del mare,  dell’alga. Che peccato.

  • Fulvy
    15 Settembre 2019 a 20:33
    Rispondi

    Leggo un pensiero su una rivista. Una donna molto anziana, con tante piccole e grandi infermità, alla soglia del secolo di vita. Testa lucida e corpo traditore.  Si annoia, visto che non può fare quasi più nulla in autonomia. Sulla carrozzina e ipovedente, che vuoi fare? Quasi nulla, dipendi dagli altri e se il cervello continua il suo andare…be’…la noia ti sommerge. Pensa alla vita facile di oggi, vita comoda, troppo comoda. Franca dice: “Ci sono talmente tante facilitazioni che alla fine tutto diventa insopportabile. Telefonini …e la possibilità di comprare tutto su internet.  Un tedio assoluto, invece che andare, come una volta, a “fare le commissioni”. In fondo,  non ci è mai piaciuto avere un’esistenza così facilitata. La vita che non costa un po’ di fatica non è mai stata divertente, la difficoltà è uno svago”. E muori. Franca Valeri è stata una grande attrice. Troppo sottovalutata,  nell’epoca dei “mostri” quali Sordi, Tognazzi, Gassman….Il suo antipatico clichè di borghese viziata e razzista, sempre distaccata, con la puzza sotto al naso. Franca, ti ho amato anche se ero piccolo, quando ti ammiravo alla TV. Ma ti capivo. Capivo che eri bravissima come lo sei ancora oggi. Lucida e lungimirante, hai anticipato il nostro tremendo futuro tecnologico, la nostra noia, la nostra morte. Volontaria. Il 5G è questo.  Lascia fare agli altri. Tutto. Non agire più, lascia che siano gli altri a farlo. Ma domani questi “altri” non saranno umani come te,  come me, Franca. Saranno loro.  I devices, gli apparecchi elettronici. Comunicheranno tra loro,  già lo fanno anche oggi. Quando squilla il nostro cellulare, oggi, è un segnale posteriore alla comunicazione che già i due telefoni si sono scambiati. Un segnale tra i due dice: “Hey, amico: sono connesso! Aziona la suoneria per quel gonzo ritardato del tuo proprietario!”, che, da brava pecorella, pensa di ‘accendere’ lui la conversazione e risponde, tutto allegro “Pronto? Heilà! Eccoci! Chi è?”.  No. Il poveretto è già  escluso.  Così domani l’onda radio del 5G farà di noi polpette.  Annoiati e sempre stanchi assisteremo passivi alla rivoluzione  del nostro pianeta senza battere ciglio. Le macchine si parleranno tra di loro e i dispositivi decideranno la nostra sorte. Sì, no, sì, no, dentro, fuori… Che noia, che morte, il futuro, Franca. Felice chi ha vissuto prima di assistere a questo triste epilogo. Le battaglie, gli impegni,  gli sforzi fatti ci nutrivano l’anima per la vittoria del fine raggiunto. Nella sconfitta, nuova linfa scorreva dentro di noi per ritentare, e non mollare l’impegno prefissato. Siamo gli ultimi, Franca? 

  • giorgiogiasir
    17 Settembre 2019 a 12:04
    Rispondi

    Grazie Fulvy!
    Collegandomi al tuo pensiero inserisco questo link, di un’uomo che parla di vita e di impegno nell’ “oggi”, nel nostro mondo narcotizzato: https://youtu.be/F_SJBGZrbhM
    Il tuo pensiero, ed il pensiero di Franca Valeri, spiegato in sintesi in questa allegoria: nella forza del partorire il proprio futuro e non nel vivere da consumatori/esecutori/”seguitori”/erogatori di “like”.
    Una rivolta è ancora possibile, ma si può avere solo con l’essere portatori di una alternativa nella propria esistenza. La rivolta è il messaggio scritto nel nostro volto, nelle nostre scelte, nelle nostre azioni, nel nostro essere.

  • Fulvy
    28 Settembre 2019 a 09:27
    Rispondi

    Settembre.  Adoro questo strano  mese, capace di regalare estati piene così come inverni precoci.  Dalla mattina grigia e fredda col vento impetuoso che ha scosso per ore  i giganteschi alberi dei viali, siamo passati ad un pomeriggio piacevolmente caldo,  invitante e sornione.  Non si sa quanto durerà questo scampolo di estate,  forse qualche ora,  chi lo sa. Ne approfitto per raggiungere la spiaggia e tuffarmi ancora una volta, forse l’ultima per quest’anno. Quando esco le gocce d’acqua sul mio corpo brillano più del solito, il sole è basso, ora, e tutto cambia aspetto.  Il mare è uno sfavillio di stelline bianche che lampeggiano in ogni direzione, poco rumore, solo il va e vieni di piccole onde che si infrangono contro le grigie pietre. Mi distendo e penso a questi regali. La natura ci regala di continuo bellezze e sorprese,  senza il nostro aiuto. A dire il vero,  anche gli uomini che sono vissuti prima di noi ci hanno fatto dei regali. Tantissimi. Non li vediamo nemmeno, tanto ci siamo abituati alla loro presenza. Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo a loro. Il morbido materassino che ho sotto di me, la crema solare nella borsa, il semaforo che mi ha fatto fermare più volte lungo il tragitto, le strisce bianche disegnate sull’asfalto. Pochi strumenti semplici che un essere umano, tempo fa, ha pensato di creare per rendere più vivibile e sicura la nostra vita. Certo, ci avrà fatto qualche soldo, bisogna pur campare. Ma l’idea originaria non scaturisce dall’eventuale guadagno, ma dall’uso che se ne fa di una data invenzione. Ci ha messo del suo, quell’uomo, nel trovare la soluzione al problema. I segnali stradali. Be’: quanto ci vuole per ideare un simbolo, un simbolo semplice,  chiaro e comprensibile a tutta l’umanità? Sorrido. Sono solo, qui, davanti a questo luccichio magnifico, e mi sembra di aver fatto dei ragionamenti banali su piccole cose. Però non mi pare siano così piccole. Ignorare un segnale di passaggio a livello può portare alla catastrofe.  Così provo una profonda tenerezza. Verso quest’uomo,  questi uomini, che hanno impegnato del tempo prezioso per gli altri. Per sempre. E nessuno sa chi siano. Mi piacerebbe festeggiare ogni giorno qualche inventore ignoto, che so, oggi l’inventore della segnaletica stradale. Domani quello della maschera subacquea. Oppure l’ideatore del distributore automatico di bevande, delle mutande, del cappello con visiera, della Borsa termica, del contagocce,  del rasoio elettrico. Niente. Non si fa. Nessuno apprezza il tempo impiegato ad ideare questi strumenti. Uomini che sono vissuti e sono morti, lasciando un’eredità al mondo. Un grande applauso. Io non lascio nulla. Non creo per il mondo alcun oggetto, strumento, comodità.  Uso quello che c’e già. Ma mi intenerisce il pensiero che qualcuno come me, conscio di transitare veloce  come tutti noi su questa terra, abbia avuto la necessità di aiutare il mondo, creando qualcosa di utile. Che prima non c’era. E ora,  grazie a lui, esiste. E viene usato da miliardi di persone. Viva l’Uomo, quindi. Ma quello vero. Quello con la U maiuscola.

  • Fulvy
    23 Ottobre 2019 a 21:47
    Rispondi

    Nera. Pantelleria è roccia.  Nera, avvolgente,  protettiva, calda, profumata, amica. Iniziamo a parlare della sua bellezza,  io e l’uomo che ho davanti. È sceso ora, attraverso le scure rocce taglienti, per fare il bagno e prendere il sole del mattino. Viene da Milano e assieme al suo compagno possiede un dammuso lassù,  in cima alla collina bruna dietro di noi. Si dichiara schiavo di quest’isola, appena può sale sull’aereo e vola qui, anche a dicembre. In questo posto si fa il bagno pure in inverno, poichè le sorgenti calde vulcaniche riscaldano il mare in alcuni punti raggiungibili con facilità. Mi racconta di un pranzo di Natale trascorso al dammuso con gli amici, all’aperto, con la tavolata a strapiombo sul mare. C’erano venti gradi. Il mediterraneo di quest’isola assume una tonalità difficile da descrivere, uno zaffiro blu che bacia intensamente il verde dello smeraldo. L’uomo mi invita a casa sua, per vederla, a fine giornata. È orgoglioso del lavoro fatto. Un restauro che vuole l’originale pantesco a tutti i costi, faticoso e costoso per un rudere acquistato a poco prezzo ma in una posizione panoramica unica. Nel tardo pomeriggio decido così di andarci. La carrareccia in salita è piena di pietre ma la mia jeep non ha difficoltà a raggiungere la casa,  immersa in un boschetto di eucalipti.  L’amico mi viene incontro sorridendo e io, scendendo dalla macchina, commento la sua fortuna sfacciata per aver trovato l’unica casa tra gli alberi di tutta l’isola. Lui scoppia in una fragorosa risata e dice: “Sì! Una fatica immane, portare tutte quelle piante…da Milano!!”. Opera sua.  Mi spiega che qui non c’era nulla,  solo il rudere color bruciato, e il mare sotto. Mi fa entrare, rimango senza fiato. I muri esterni sono rosa, come da tradizione da queste parti,  così come rosa è il pavimento in cotto fiorentino dell’interno.  Ceramiche decorate a mano abbelliscono le pareti della semplice cucina e la Sicilia si respira qui a pieni polmoni, continuando il sopralluogo. Il soffitto bianco a botte, classico dell’architettura dei dammusi, garantisce aria fresca dappertutto,  aiutato dalle finestre aperte su ogni lato della casa per far entrare il piacevole vento di tramontana. C’è un silenzio assoluto, qui. E dall’interno di questa dimora si viene rapiti dallo spettacolo che offrono le finestre spalancate sul blu intenso del mare sotto di noi. Un cannocchiale piazzato fuori garantisce la visione ravvicinata del passaggio dei tonni, frequente ed emozionante. L’amico si lamenta un po’ del clima salino, che rovina presto l’intonaco e impone continui restauri,  ma gli ritorna il sorriso quando vuole accompagnarmi sul retro della casa,  il “punto forte ” dell’abitazione. Anticamente, tutte le case di Pantelleria erano provviste di un “giardino arabo”. Una pezzo di terra rotondo, protetto da un alto muro a secco circolare, che lo proteggeva dal vento invernale.  Lì si potevano, e si possono, coltivare aranci e limoni,  mandarini e chinotti, uno spettacolo godibile solo qui, circondati dalle pietre nere del rassicurante  muro circolare. Così, il restauro è stato fatto anche fuori,  ripristinando l’antico sistema inventato dai Mori. Basta? Certo che no, il bello deve arrivare. L’amico mi fa cenno di muovermi piano e non fare rumore. Tra le foglie di un brillante verde mela, un uccellino ha costruito uno splendido nido. Non ha paura di noi e continua a covare le sue piccole uova senza muoversi. L’emozione dell’uomo che ho accanto è contagiosa. È una persona sensibile e mi sto convincendo che il motivo principale del suo cortese invito non sia stata la visita alla sua splendida casa. Ma la visione di questo miracolo in miniatura nel mezzo del Mediterraneo,  nel suo splendido agrumeto.  In Italia.

  • Fulvy
    13 Novembre 2019 a 19:28
    Rispondi

    Mmm? Che c’è? Niente, oggi sono un po’ giù. Perché? Non lo so, sarà il tempo, forse. Facciamo un gioco, allora? Lo sai che non mi piace giocare. Lo so. Però questo è più di un gioco.  Cioè? Voglio dire, è il gioco della vita. Sei pronto? Che vuoi dire, ..certo che sì! Bene. Facciamo finta che io non ci sia più. In che senso? Nel senso classico,  io muoio e tu sei qui, senza di me. Mmm.. che gioco stupendo. Non hai un’altra idea? Già sono depresso…Dài! È il momento giusto, forza! Ok, va bene… tu non ci sei più e io sono solo. Sì.  Esatto. Devi sopravvivere. Fai da mangiare, per te, solo per te stesso, per poter vivere. Che fai? Oh… beh…che faccio… come tutti..mangio un po’ qua, un po’ là. Panini, pasta, uova.  E poi? Vivi con queste cose? Ti ricordi quel bel documentario sui solitari abitanti di quell’isola in Liguria? Tutti uomini. Si, ricordo.  Bello,  …solitudine,  silenzio, natura… Ecco. Ce n’era uno in particolare,  sognava di trovare una cuoca. Che venisse là a fargli delle minestre. Sì,  ricordo, viveva solo lì, col suo cane, bella casa…vuota.  Ecco,  io vorrei…anzi, ..non vorrei mai che tu avessi bisogno di una cuoca,  di una donna delle pulizie, niente.  Mi piacerebbe che tu fossi indipendente, libero, autosufficiente.  Ah, capisco ma….dove vuoi arrivare?? Dove? Be’…vorrei che tu fossi più bravo di quello là,  ..E imparassi  a fare una minestra. La guardo. Com’è bella. Sicura, forte, senza paura, autonoma e seria. La mia donna. I suoi occhi sono spalancati e chiari, mi guarda senza velo alcuno,  picchia il mio ego maschile senza difficoltà.  Ha le porte aperte, e lo sa. Ha ragione,  come sempre in queste cose.  È vero,  non so cucinare che tre o quattro cose.  Che tristezza,  mi diceva mio padre, l’anziano solo , costretto ad andare a cena all’osteria,  perchè non sa fare nulla in casa… Aveva ragione pure lui, caro papà,  certo che avevi ragione. Forse non sono capace, non ho ambizioni da Cracco,  sono viziato? O trovo sempre il pasto bell’e pronto,  e non ci penso neppure a trovare un giorno la tavola vuota. Così ascolto. Ci provo,  almeno.  Lei,  con pazienza, mi sembra un uccellino che insegna alla prole il primo volo. Calma, tranquilla, segue i miei movimenti ed errori, e ripete i passi, le sequenze, gli ingredienti,  il sale,  le carote,  le verdure…. Una semplice minestra. Fai così,  e non cosà,  perchè è meglio, e mi spiega il perchè, mi apre un mondo, una conoscenza aliena, lontana dal mio essere maschile,  anni luce. Finiamo la lezione. Ho capito tutto? Certo amore, sono sicuramente in grado di cavarmela, se necessario.  Grazie, sei stata brava. Lei mi guarda; non saprò mai se è sicura di avermi convinto oppure no. Io pure non lo so. Saprei cavarmela? O chiederei aiuto, come quel Ligure solitario,  che sognava una cuoca a prepararli una minestra? Io però possiedo una cosa che lui non ha. Io ho avuto questa lezione, una lezione d’amore, tutta per me. Personalizzata.  Occhi azzurri, carote, olio di oliva, verdure, aglio, sorrisi,  sedano, cipolle, gesti, sale, pepe, risate,  abbracci, frecciatine,  pomodori e complicità.  Bastano, per sopravvivere? Direi di sì.

  • Fulvy
    7 Dicembre 2019 a 17:50
    Rispondi

    Safiqeh! Eccoli! Svegliati,  dai!
    Fa presto! Guardali! Come sono belli…

    Sultana è la prima a correre alla finestra. Raggiunta subito anche dalle altre. Belli, sì,  stupendi. Tahmina non perde mai l’occasione per cercare con gli occhi il suo preferito. Piccolo come lei,  bruno e con gli occhi chiari, luminosi e sinceri. Quel soldato italiano le ha sorriso, un giorno. Un attimo di felicità lunghissimo, interminabile, tutto per lei. I denti bianchi e perfetti di quel ragazzo gentile assieme ai suoi occhi azzurri le ricordavano la neve delle sue montagne. Tutto era finito ormai, niente più capre da pascolare,  niente discorsi serali degli anziani, niente paura dei fratelli.  Niente di niente. Un vuoto pulito nella sua testa di adolescente, pronto solamente a ricevere bellezza, grazia, calma, pace. Quei ragazzi italiani sono questo, per le ragazze vestite di blu. Un’oasi mentale per sognare, per sognarli. Capire i loro nomi è impossibile, troppo difficili. Safiqeh dice che è sicura di aver sentito chiamare Joannis, o qualcosa di simile. A lei piace quello alto e con la barba corta, cammina in un modo strano, simpatico, la fa sorridere ogni volta quando lo osserva dalla finestra. Lo pensa sempre, tutto il giorno, sempre, sempre. Lo immagina senza divisa, in maglietta, a fare qualche lavoretto, qualche riparazione su un camion. Come sarebbe bello avvicinarsi, e chiamarlo per nome,  ciao, come ti chiami? Io sono Safiqeh, mi piacerebbe se parlassimo la stessa lingua, mi piacerebbe se mi prendessi la mano, se mi guardassi negli occhi.  Joannis, …Giovanni? Forse Giovanni…? Non so…

    Sultana le confessa che vuole ferirsi di proposito. La porteranno in quella tenda laggiù, l’infermeria.  Si farà curare e potrà vedere da vicino il “suo” soldato italiano. Lei sa come si chiama, il suo nome è Bruno. Ma non lo ha detto alle altre,  non lo vuole condividere, vuol tenerlo tutto per sé. I ragazzi armati passano, e se ne vanno dopo aver preso le consegne. Non si accorgono di essere osservati e nella breve sosta davanti a quella baracca parlano, ridono e fumano, belli, puliti, stranieri da amare, uomini protettivi che mi porteranno via, un giorno, un giorno, chissà, via da queste pietre, da questa povertà senza fine, dalla miseria di questi cervelli, dal vuoto dell’anima di questi animali. Ti prego Allah, non farli andare via, mai, falli restare, non posso più vivere senza vederli, senza sentire le loro voci, le loro risate. La loro pulizia,  dentro e fuori, la voglio per me, voglio lavare la tua divisa, voglio vederti dormire, mangiare, voglio curarti, guardarti, baciarti. Allah, farò quello che mi chiederai ma ti prego, ti prego mio Altissimo, falli restare, fai restare qui l’uomo che è entrato nel mio cuore per sempre, tra queste pietre, questa sporca sabbia, questa guerra, questa gente. Questa triste vita, in terra afghana. 

  • Fulvy
    5 Gennaio 2020 a 14:34
    Rispondi

    Questo? Acqua che scorre. Questo? Qualcuno che cammina, passa di qua e torna indietro. Questo? Una porta che si apre e una radio trasmette il notiziario nell’altra stanza. Adesso? Piatti, bicchieri, posate che vengono usate da qualcuno. Forse per preparare qualcosa o per mangiare. Un po’ di musica; il lieve rumore di un ferro da stiro a vapore; il quotidiano e le sue grandi pagine, un fruscio inconfondibile. Un armadio viene chiuso, un cassetto aperto, una tenda viene tirata un po’ per schermare il sole estivo: i suoi rullini sono di acciaio. La tastiera di un computer, il mazzo di chiavi buttate sul divano. E pensare che spesso voglio la pace, il silenzio. Li cerco perché credo di riposare, di staccare. Che strano, è un falso desiderio. Non voglio il silenzio, io. Mi piacciono questi rumori. È presenza. E’ vita. Siete voi.

  • Fulvy
    12 Gennaio 2020 a 20:25
    Rispondi

    …. che dire? Mi sono emozionato. Vado pochissimo a teatro, un dramma poi.. La prima guerra mondiale. Ma non la solita prospettiva maschile, il fronte,  il sangue,  i compagni, la fame, le malattie, il freddo, i pidocchi, la mancanza della famiglia, degli amici.  Qui si parla di donne. Della loro guerra.  Rimaste a casa, ad aspettare. 

    Che guerra è? Una guerra di nervi, di disperazione, di silenzi. Di pazzia. Quante donne sono impazzite di dolore, alla ferale notizia. O alla mancanza di informazioni, per anni. E giù manicomi, cinghie, docce gelate. Anna, la protagonista,  non riesce a sopportare tutto questo, ammalandosi. Povera Anna, lei e le sue amiche, aggredite da una guerra che non apparteneva a loro, né a nessuna donna. Che colpe avevano? Meritavano di essere legate ai letti? Di venire annaffiate con acqua gelata? Manicomi.

    Ma certo! Puniamole queste “ribelli”, la guerra è maschia, la donna non ne fa parte, meglio dimenticarcene, buttiamole in un cantuccio, basta non sentirle, non vederle;  poi si vedrà.

    Così queste donne iniziarono a lasciarsi morire una settimana prima di Natale.

    Sì, un suicidio collettivo come a Masada, il suicidio collettivo degli ebrei nel 73 d.c., quando quel popolo preferì suicidarsi in massa per non cadere nelle mani dei Romani. Così le povere donne, con Anna, rifiutando il cibo e la vita, hanno decisamente voluto ribellarsi ad un mondo che non sentivano loro, un mondo di guerra e di sangue, che uccide l’amore, i figli, le madri. Un rifiuto collettivo, sentito, deciso da tutte allo stesso momento.

    Il mondo della donna non appartiene alla guerra. Non è cosa sua.

    La donna dice no. Dirà sempre no, alla guerra, alla violenza, alla forza bruta.

    No!

    1. giorgiogiasir
      27 Gennaio 2020 a 11:58
      Rispondi

      Bellissimo scritto e prospettiva, il mondo del sentimento e dell’amore in lotta contro la guerra, nella sua forma più cruda, più “viva”. Per non dimenticare. Grazie Fulvy, come sempre preziosissimo su questa battigia!

  • giorgiogiasir
    27 Gennaio 2020 a 20:47
    Rispondi

    ” Quello che omettono di dire è che il sistema non garantisce la felicità. ”

    Giorgio Giasir

    27/01/2020

  • Belle
    31 Gennaio 2020 a 22:13
    Rispondi

    Non c’è cosa più bella di esser in pace con se stessi, nonostante la tua valigia inizi a pesare, anche di nuove emozioni, come il dolore. Come il rumoroso silenzio del tuo cuore quando si spezza, ma riuscire comunque a pensare e prendere sempre il meglio da situazioni, persone o cose. Mi è stato detto una volta, “tu sei tu, tutto il resto è rumore”, ed è vero, ci sono io ed è quello che conta… il meglio deve ancora venire!

  • Belle
    5 Febbraio 2020 a 02:11
    Rispondi

    Un’altra notte insonne.. in lacrime. Pensi di star bene fino a che non arriva quel dettaglio che ti fa crollare tutto. E resto qui, a letto, nel buio. Un buio profondo e scuro, come i pensieri che mi attraversano adesso. Cerco di combatterli con la meditazione, cercando un po’ di luce, ma sono forti. Mi chiedo perché lo sono così tanto?! Sono debole?! Troppo fragile?! Troppo stanca di combattere?! O semplicemente voglio farla finita, e anche in fretta, così che io possa dormire?! E allora li lascio scorrere.. e sono lì cattivi, a puntare il dito. A ricordarmi che sono umana, e anche io commetto errori, forse ne ho commessi troppi, per meritarmi certi avvenimenti. Ma diventano ancora più crudeli.. nel frattempo arriva un ricordo fragile, bello, spensierato e pieno di luce, riesco a sentire persino il suo profumo, e un tipo a caso che canta “è più forte di me” e penso, a quante volte l’ho ascoltata e non mi sono mai soffermata sul testo, a quante cose che spesso do per scontato e analizzo con superficialità. Quella canzone è diventata improvvisamente adatta a tutto questo, a questi pensieri che non mi fanno dormire la notte. Sei la malattia e la cura… e stanotte ho imparato questo. Ora proviamo a dormire?

  • Fulvy
    11 Febbraio 2020 a 08:21
    Rispondi

    Lunedì. Tanto per cambiare,  mi alzo presto e mi girano le scatole. Fuori piove ed è ancora buio, la brutta stagione sta iniziando e uscire di casa, lo so, sarà pesante. Mi avvio in cucina per fare il caffè,  ruoto il miscelatore del lavello e…No!! Per la miseria! Che succede? Una fontana d’acqua fa saltare fuori il braccio del rubinetto che cozza sulla base dello scolapiatti, poi si schianta nella vaschetta di acciaio e tutto attorno si è formato un bel laghetto. Chiudo l’acqua e resto fermo,  come una statua di sale. Asciugo tutto, piastrelle, lavello, mobili, mentre mi domando il perchè. Come è possibile che l’acqua della conduttura faccia saltare via il rubinetto dalla sua sede? Dire che odio il lunedì….be’ mi sembra banale.  Aspetto mezz’ora e chiamo Guran. Il mio amico idraulico è sempre indaffarato, ma non mi ha mai lasciato nei pasticci. Risponde che verrà da me nel pomeriggio e di non preoccuparmi, la pressione dell’acqua nella mia zona è aumentata a causa di alcuni lavori sulle condutture e non sono l’unico ad avere avuto il problema. Mi rassegno e vado al lavoro: uscirò prima dell’orario consueto, per aspettare Guran. Mentre sono in macchina, mi sorprendo a pensare a lui. Con affetto, con simpatia. È un bravo ragazzo di etnia albanese, alto, atletico, castano e con gli occhi verdi. Un onesto lavoratore arrivato qui tanti anni fa, per sfuggire alla tragica situazione del suo paese. Guran arriva sorridente nel pomeriggio,  puntuale, come promesso.  Mentre traffica con chiavi inglesi e bulloni, mi sorride e mi rassicura che il danno non è serio, si risolverà tutto. Mentre gli preparo il caffè, lo interrogo sulle sue vacanze estive, che ha trascorso in un’isola croata. Entusiasta della vacanza, mi vuole raccontare la sua avventura di subacqueo apneista.  Una mattina si immerge e vede sul fondale, a circa 6 metri di profondità,  qualcosa che luccica. Dopo vari tentativi, riesce a vedere di cosa si tratta.  È… un “messaggio” in bottiglia, come ai tempi degli antichi naufragi. Non senza difficoltà, riesce a prendere la bottiglia e a portarla in superficie, incuriosito e ansioso di scoprirne il contenuto.  All’interno, perfettamente asciutto, un biglietto scritto in tedesco.  Assieme alla fotografia di una donna. Il foglio, datato 2 anni fa, spiega che la signora della foto è la moglie deceduta del signor Erik, ottantenne germanico residente a Francoforte.  Alla scomparsa della moglie, Erik si è recato sull’isola croata che hanno amato assieme, per tanti anni, e in quel luogo ha gettato la bottiglia, pregando chi l’avesse trovata,  di contattarlo telefonicamente.  L’amico Guran, sensibile a queste cose, ha quindi telefonato al signor Erik il quale,  appena saputo del ritrovamento (lontano qualche miglio dal luogo dove aveva gettato la bottiglia) per la commozione si è messo a piangere.  Si sono sentiti al telefono molte volte, da allora, Guran ed Erik, e l’anziano ha invitato Guran a Francoforte per fargli visita. Erik ha pregato Guran di una cortesia.  Poiché alla moglie piaceva molto viaggiare, potrebbe Guran gettare nuovamente quella bottiglia nel mare italiano? Certo che sì – ha risposto il mio amico – e poiché Erik gradirebbe lanciare il messaggio più lontano possibile,  Guran gli promette di affidare l’incarico ad un suo amico che sta partendo per Ancona. Laggiù,  il mare italiano sarà ancora più distante. Mentre Guran finisce il racconto,  termina pure la sistemazione del mio rubinetto. Vedo però che si ferma, preparandosi a raccontarmi l’epilogo della storia,  veramente incredibile. Un magnifico sorriso anticipa il finale. La moglie di Erik è nata lo stesso giorno di Guran, il mio amico idraulico, colui che dopo 2 anni, per puro caso, nella vastità del mare Adriatico,  ha trovato il messaggio in bottiglia lanciato da Erik. 
    Oggi è lunedì.  Un magnifico, stupendo, inizio di settimana.

     

    1. giorgiogiasir
      14 Febbraio 2020 a 12:32
      Rispondi

      Una magnifica storia caro Fulvy. Una storia che mi ha commosso, e che fa capire quanto sia preziosa la condivisione umana! Grazie infinite per le tue bellissime perle su “Brezza di mare” 🙂

  • Giorgio Giasir
    25 Febbraio 2020 a 10:24
    Rispondi

    “perché avere la paura di morire,
    se non si ha il reale desiderio di vivere?”

    La vita è oggi: coglila ora!
    senti il sapore, l’odore,
    abbracciala, strappala, indossala,
    sentila sulla tua pelle:
    deve farti ridere facendoti venire i crampi allo stomaco,
    e farti soffrire fino a sentire l’ultima goccia di sangue abbandonare il tuo corpo
    e cadere sul suolo,
    come sudore…

    Nessuno ci ha promesso questa vita.
    Ci è stata data, per viverla.
    E dunque quale pentimento nel perderla, se l’hai gustata
    nella sua estrema candida purezza,
    fino all’ultimo respiro?

    Giorgio Giasir
    25/02/2020

  • Fulvy
    8 Marzo 2020 a 15:20
    Rispondi

    Federica accende il computer. Oggi è l’8 marzo, legge le mail, gli auguri, le cartoline virtuali. La sua paura non c’è.  Il virus sta sconvolgendo le vite di tutti, gli allarmi e le ultime ordinanze ministeriali sono acqua di fonte, su di lei. Tutti hanno paura. Di stare in casa, di perdere il lavoro,  di litigare, di non sapere dove mettere i figli quando chiudono le scuole. Federica ha avuto la Malattia. Quella seria, quella che ti fa pensare. Quella che ti cambia la vita. Lei non teme nulla, è serena. Tutto scorre su di lei. Vivere alla giornata è regola, e il mondo sembra dimenticarlo. Niente ci è dovuto, e grazie di esserci ancora. Oggi è l’8 marzo e un piccolo stormo di cicogne meravigliosamente bianche sta passando in alto, in contrasto con l’azzurro del cielo. Tornano a casa, come tutto e tutti in questo mondo. L’aria fuori è fresca, si respira bene, nulla può rovinare questa fantastica giornata. Federica chiude il computer e guarda fuori. I suoi panni stesi al sole sono asciutti e profumati.  Accende lo stereo. Niente di meglio che ascoltare buona musica, pensa sorridendo. A finestre aperte, stirando.

  • Belle
    16 Marzo 2020 a 23:19
    Rispondi

    Pensare positivo. Resto a casa per tutelare il prossimo. Non è una prigione, ma una buona azione. Prendo questi giorni come del tempo per me, che forse mi serviva.. e mentre leggo il cammino di santiago, di coelho, al sole, penso che questa pausa serviva a tutti, per capire quanto sia bello abbracciare un amico, guardarlo negli occhi, andare sul lungomare a fare jogging dopo il lavoro, anche se spesso ti raggiungeva la collega con la puzza sotto il naso. Un detto dice che si apprezza il valore delle cose, quando non le hai più. E non poteva esser più attuale.

  • Belle
    18 Marzo 2020 a 23:59
    Rispondi

    “Volevo solo essere amato”
    Un risveglio pesante, da urla disperate, pianti, e le tue urla in piena crisi di nervi… questa quarantena a chi soffre di depressione come te, è un vero male. Spesso, questa patologia viene sottovalutata.. e noi l’abbiamo fatto, perché erano ormai più di trent’anni che ti vedevamo bene, e felice.. e poi stamattina? Cosa ti è successo?! Ho aperto le finestre e non eri lì a passeggiare in giardino, ma lanciavi cose, in un nano secondo sono arrivati, ti sono saltati addosso e legato, mentre urlavi che volevi esser amato. Che da tempo in casa tua non c’era più felicità, che fingevi per metterti in pari con gli altri, che il lavoro non andava, ma non ci pensavi perché eri libero di far le tue passeggiate, ma chiusi in casa i pensieri fanno quello che vogliono, e chi è già fragile, arriva il peggio. Ti chiedo scusa, se ti abbiamo dato spesso per scontato. Se forse anche io nel mio piccolo non ti ho mai fatto sentir voluto bene. Ma sappi che tutti te ne vogliamo. E che aspettiamo che ritorni in fretta, e bene. Senza più fingere allegria…

  • Belle
    21 Marzo 2020 a 21:36
    Rispondi

    Primo giorno di primavera, bello pesante per me. Io sono sempre in mezzo alla natura, aspetto sempre questo giorno, per abbracciarla a pieno, godermi i primi alberi in fiore, i primi uccellini che ritornano, le mie giornate dedicate al trekking. Quest’anno no. Ti devo guardare dalla finestra, mentre tu continui la tua rinascita, e io resto ferma qui, a goderti da un altro punto di vista. Un po’ limitato, ma fattelo dire che sei sempre bellissima! La mia stagione preferita <3

  • Fulvy
    28 Marzo 2020 a 15:27
    Rispondi

    Pandemia. Dal greco pan (tutto) e demos (popolo). Tutto il popolo. Tutti a casa, per giorni, per settimane. I socials traboccano di commenti, tantissimi stupidi,  tanti spiritosi, ragionati o arguti. Si cerca di passare il tempo. Gli italiani sono un popolo intelligente, che ha sempre saputo vivere. Sa cavarsela,  reagisce e combatte, prevalentemente in forma individuale.  Per questo, mi lasciano perplessi gli striscioni appesi ai balconi, un  colorato “andrà tutto bene” poco convinto. Nessuno sa come andrà a finire. Striscioni e canti sul terrazzo cercano, semmai,  di allontanare il panico,  la paura dell’oggi, e del domani. I media ripetono le stesse cose fino allo sfinimento,  mancano le comunicazioni essenziali.  Che forse non arriveranno mai. Basterebbe un po’ di onestà intellettuale; chi ha contagiato il prossimo non dovrebbe essere ignorato. Anzi, proprio questa diffusa omertà mi suggerisce che sono stati i comportamenti rischiosi a scatenare la pandemia. Silenzio, quindi…. colpevoli come un bambino che ha commesso una marachella e non la confesserà.  Zitti, zitti, …. meglio nasconderla. Certo, gli anziani sono i più vulnerabili. Hey! Pronto? C’è qualcuno? C’è qualcuno qui talmente coraggioso da urlare la verità? O pronto a sentirla? Vediamo un po’….Saremmo pronti a sapere che il fruttaiolo sotto casa frequenta le prostitute in strada? Certo che no…La sua vicinanza agli anziani del quartiere fa bene alla loro anima….La prostituzione, come la promiscuità,  è la patria dei contagi, virus e  batteri se la spassano in quel genere di contatti. Che dici? Oh, sì. La partita di calcio…. Bergamo è stata massacrata per quei 40 mila tifosi attaccati uno sull’altro. E poi? La fiera di Rimini, a fine gennaio. Be’ a nessuno verrebbe in mente di aver paura di gelati e pasticcini,  nemmeno se tutti gli espositori usassero gli stessi servizi igienici…Eppure a quella fiera parteciparono anche gli espositori da Wuhan. Nessuno sembra preoccuparsene. In realtà non si pensa a nulla. Troppo penoso. Dimentichiamoci dell’illegalità precedente.  Dello spaccio, dei traffici.  Un’indagine di qualche anno fa, ci raccontava dell’enorme consumo di cocaina della Lombardia, i cui residui finivano nelle urine dei consumatori, che potevano essere rintracciati nel fiume Po. C’è un’igiene nell’essere drogati? Ci può essere una quarantena per un tossicodipendente? Direi di no. Chi non ama se stesso non ama gli altri. Se ne frega della salute sua e dei congiunti.  Anziani o giovani che siano. Nella Babele italiana, europea e mondiale, dove tutto è permesso, siamo ancora qui a domandarci come sia potuto accadere.  Lo schifo diffuso. Ecco come. La maleducazione e il menefreghismo ci fanno credere di essere innocenti. Le discoteche fino a ieri erano strapiene di giovani ubriachi che facevano mattina alitandosi in faccia e urlando in preda alle pasticche. Ce ne siamo dimenticati.  Oggi però vediamo alla tv gli ospedali al collasso, con le sale di rianimazione colme di gente intubata  che sta male, malissimo. Chiusi in casa, immobili e terrorizzati da quelle immagini, cerchiamo una via di fuga.  Chiusi in casa. Lievito. La parola più usata nell’ultima settimana, in tutti i socials.  Lievito. Sparito dai supermercati,  vi spiego come fare il pane, la pizza. Gli italiani vogliono la vita. Vogliono il pane, il suo profumo, la sua bontà. Vogliono vederlo crescere, come un bambino, come una vita nuova, pura. 
    Coccolano la farina, la impastano, la curano, le danno una forma familiare e antica. Il pane. La vita dell’umanità.  Qualcuno ne ha assoluto bisogno, lo vede come un nuovo giorno, pulito, puro,  conosciuto, profumato come un bebè che guarda la madre  che lo allatta. Pane, cura di tutti i mali. Cerchiamo un rifugio sicuro, un posto dove stare,  dove ricominciare. Sei tu?

  • Fulvy
    12 Aprile 2020 a 13:38
    Rispondi

    Oggi è Pasqua. Cristo è uscito dal sepolcro e noi siamo chiusi in casa. Ancora. Cristo è risorto.  E noi? Qui, ancora, a passeggiare sul terrazzo.  Mentre  cammino immerso nei miei pensieri,  scorgo un gatto. Uno splendido persiano sbuca dalla ringhiera di un balcone lontano. Guarda giù,  interessato a qualche passero o piccione. E, improvvisamente: lui. Quel Ricordo. Ero piccolo, avrò avuto nove o dieci anni. Ciondolavo d’estate da solo, vicino al piccolo prato sotto casa. Ad un tratto, sento uno strano odore. Pungente, sconosciuto. Mi chiedo cosa sia. Lo seguo d’istinto e guardo  con attenzione tutt’attorno.  E lo vedo. È la prima volta  che riesco ad ammirare i suoi denti  bianchissimi,  i canini aguzzi. La morbida pelliccia bianca e grigia ispira una carezza ma lui, oggi, ha quell’odore.  Sta lì, immobile, vicino al marciapiede. Corro a casa, velocissimo : “Mamma! In strada c’è un gatto morto!”. 

    Morto

    /mòr·to/

    aggettivo e sostantivo maschile

    1. L’individuo nel quale si è avuta definitiva e totale cessazione delle funzioni vitali: un uomo, un gatto m.; molto comune in espressioni iperboliche per sottolineare un’estrema spossatezza o mancanza di forze.

    Appena pronuncio quella parola, mi sorprendo. È la mia prima volta.
    La prima volta che la vedo, che ne parlo. È così,  dunque? È questa? Immobile, puzzolente, eterna? Ma da dove mi è uscita questa parola? Che ne può sapere un bambino? Il giorno dopo ritorno a guardarlo. È sempre lì.  Immobile. L’odore è ancora più forte e io ho l’impressione che se mi avvicino troppo e lo respiro,  potrei ammalarmi.  Ma non resisto e rimango lì, trattenendo il fiato o coprendomi il naso con la maglietta.  Mia mamma ha già chiamato il Comune, che venga a prendere quella carogna. Siamo d’estate e bisogna fare presto.  Ma non s’è visto nessuno e io sono libero di tornare là per la mia osservazione. Mi sembra cambiato, quel povero micio. Non so perché ma lo vedo differente,  forse gli occhi, non so, o la sua pelliccia.  Lo guardo e lo riguardo, e all’improvviso un brivido mi fa indietreggiare.  La sua pancia, sembra trasparente, ma no, non sto sognando, si muove. Com’è possibile? Mi sembra di avere la febbre, le mie pupille si restringono perché spalanco gli occhi. Un movimento brulicante si muove all’impazzata sotto la pelle del felino, e credo di capire …. vermi. Nascosti,  vivi, bianchi, una vita dentro la morte che non pensavo possibile. Mamma, ma da dove sono arrivati? Saranno stati centinaia! Non sono arrivati,  mi spiega lei, si formano da soli quando la carne marcisce. Rimango immobile e ci penso su. Sarà il mio passatempo più importante, nei prossimi giorni, vedere come va a finire.  Nessuno se ne accorge, solo io sembro vivere questa avventura eterna, di vita e di morte, sul marciapiede sotto casa. Passano i giorni e il Comune non si fa vedere. La carcassa della povera bestiola si sta asciugando,  appiattendosi,  e i vermi sono scomparsi. Tutto è asciutto, il caldo estivo sta lavorando in fretta e bene, non c’è quasi più odore e la pelliccia ha ormai una tinta grigia che non riconosco più.  Il Servizio Municipale arriva a lavoro ultimato, la natura ha fatto il suo corso, e la pinza del netturbino preleva una mummia perfetta,  rigida come un cartone,  buttandola nel camioncino. Tutto finito, come se non fosse mai esistito. Ma non per me. Quanto mi ha insegnato quel povero micio. Nessuno lo sa. Oggi Cristo è  risorto, la vittoria dello spirito sulla carne, sulla materia. Grazie a quel piccolo felino, ho cominciato a capire.

  • Mari
    18 Aprile 2020 a 03:08
    Rispondi

    Una cosa strana che mi sta accadendo in questi giorni è, che spero sempre che non arrivi il mio turno di fare la spesa, o che arrivi la notizia che posso ritornare al lavoro, o alla normalità. Devo ancora capire perché mi sta facendo così tanta paura il mondo la fuori?! Perché quando esco per i beni di prima necessità, ho un’ansia tremenda e non vedo l’ora di tornare a casa?! Questa paura di affrontare la vita non va bene. È proprio vero che più resti a casa, più ti piace starci, e più preferisci guardare il mondo dal divano che viverlo davvero. Ho capito che non sta succedendo solo a me. Ognuno si è fatto una propria routine a casa. Tempo per se stessi. Tempo. Quanto tempo abbiamo sprecato dietro a persone, occasioni, soprattutto al lavoro, quante cose belle o hobby, cose che ci facevano star bene, abbiamo accantonato perché troppo stanchi?! Finalmente possiamo fare “tutto”. Leggere quel libro, guardare quella serie, provare a smettere di fumare, imparare a suonare uno strumento… forse è proprio questo che fa paura?! Finalmente abbiamo capito che la priorità siamo noi, le cose e le persone che amiamo, e che il mondo la fuori ce l’ha fatto dimenticare… e ci fa paura, di diventare come eravamo prima.. circondati di molti beni materiali e poca sostanza. Finalmente “siamo” e non “abbiamo”…

  • Fulvy
    18 Aprile 2020 a 16:20
    Rispondi

    Mi sembra di camminare tra centinaia di chirurghi.  Ma poi, no, osservo meglio. Non sono professionisti. Anzi, questa è gente che vorrebbe evitare un ospedale il più possibile. E c’è di tutto. Nelle vie cittadine, l’ordinanza ministeriale prevede l’obbligo di indossarla e tutti si sono attrezzati. Mi fa un po’ sorridere questa obbedienza e mi intenerisce la nostra accettazione improvvisa di regole nuove. Immagino dettate dalla paura. Di venir sanzionati, al più,  non di ammalarsi. Così osservo gli sforzi messi in campo da ognuno, per poter girare tranquillo. Qualcuno usa la carta da cucina, qualcuno il filtro, giudicato “egoista “. Qualche anziana signora si arrangia col foulard di Kenzo, resuscitato da un cassetto, fuori moda ma perfetto per la bisogna.  Chirurgiche, sbilenche, fatte a mano o assurde, le mascherine oggi sono obbligatorie. Vengo incuriosito da una specie di hippy con la barba lunga, che ostenta sul viso un telo di garza indiano, con il mantra OHM stampigliato all’altezza della bocca. Vedo fiori stampati sul cotone, simboli della pace o teschi su fondo nero. Sembra una moda, più che una necessità. Di nuovo esce l’individuo, con le sue caratteristiche,  che sfrutta questa novità per esibire la propria personalità. Io-diverso-da-te. E così sul web vedo la blogger Ferragni, che si sforza di sorridere sotto la maschera fashion,  o il cantante Vasco Rossi che ci rinfresca la memoria sui movimenti femministi e i loro simboli. Ma che sta succedendo? Mi sembra una richiesta di aiuto, questo continuo, inesorabile volere, a tutti i costi, apparire. Chi c’è dietro la maschera? Hai paura? Di cosa? Di sparire, di non essere riconosciuto, di rimanere solo? La tua costante presenza sui social media ha fatto già i suoi danni. Se non appari, non esisti. E come puoi apparire, nella vita reale, col viso coperto? Capisci forse, appena sotto pelle, lo stato d’animo della donna nel mondo musulmano? Coperta, nascosta, dimenticata,  cancellata, lei non esiste. Ma non importa, vero? Però oggi vediamo tanta esibizione, filtri,  materiali, sorrisi e Batman o Superman, per scacciare subito via quell’idea. Quella materializzazione del “numero” umano, tutti uguali, coperti,  anonimi, massa, popolo informe, gregge belante da indirizzare con la forza verso l’ovile. Non possiamo ribellarci,  ovviamente.  Non ne abbiamo la possibilità e neppure l’informazione ci sta aiutando a riordinare i pensieri.  Così ci consoliamo sul web. I “gruppi”. Molto utili, in questo periodo. Aiutano a sentirsi meno soli, a confrontare le idee, a sfogarsi un po’,  a cambiare, forse, qualche opinione. Così, è tutto un fiorire di “oggi mi hanno sanzionato”, e giù duecento commenti. Oppure “posso fare questo o quello” , e decine di consigli o recriminazioni. Meno soli, meno soli, help me if you can, i am feeling down …, cantavano i Beatles. Tutti sono preoccupati di sparire, di essere dimenticati, abbandonati, soli. Appena dopo 2 mesi di quarantene e presìdi obbligatori, oggi finalmente qualcuno si è ricordato dei sordomuti. Il loro linguaggio dei segni comprende pure la comprensione del labiale che, con la mascherina, diventa impossibile.  Un taglio con le forbici, quindi, alla mascherina,  in corrispondenza con la bocca, e copriamo il “buco” con la plastica trasparente. Una pratica idea. Ma sono già passati due mesi. Nessuno ci aveva pensato. Niente cuoricini, fiori, Batman, Simpson, qui. Pensiero e solidarietà  per gli altri. Dove sei? Help me get my feet back on the ground, cantavano i Beatles. Won’t you please, please help me?

  • Fulvy
    3 Maggio 2020 a 15:11
    Rispondi

    Il cuculo è un truffatore. Un arrogante, crudele, opportunista uccello dei boschi.  Pigro e insolente,  non perde tempo e fatica per costruire un nido. Lui depone le uova in casa d’altri.  Li sfratta, per così dire, come una banca quando si appropria delle case di chi non può pagare le rate del mutuo. La femmina ispeziona il territorio fino a quando trova un nido che fa al caso suo. Ed eccolo. Temporaneamente vuoto, perchè i proprietari sono in giro a cercar cibo, quell’intreccio di rametti con 4 uova silenziose fa al caso suo.  Così, il cuculo depone il suo unico uovo nel comodo giaciglio, ne butta a terra uno (per ingannare la vera madre, che sa per certo quante uova possiede) e se ne va. Saranno quindi i proprietari del nido, passeracei ignari e lavoratori, a nutrire il lestofante. Alla schiusa dell’uovo,  il piccolo cuculo continua la tradizione di famiglia. Da vera canaglia, pensa solo a se stesso e per poter beneficiare da solo di tutto il cibo catturato dai genitori degli altri, non  esita a disfarsi delle uova  ancora chiuse, le uniche con diritto di cittadinanza in quel minuscolo locale. Un piccolo essere di pochi grammi, trova la forza  per sbarazzarsi dei rivali, e garantirsi la pagnotta a scapito dei legittimi proprietari.  Passano i giorni e i genitori “adottivi” non si accorgono di nulla, non notano la mancanza delle loro uova,  nè che il loro “piccolo” sta crescendo a dismisura.  È ormai grande il doppio rispetto a loro,  e reclama pigolando la sua dose di cibo. Il gigante non appartiene a quella casa, la sua razza è diversa, ma nessuno se ne avvede. È un mostro, un Moloch che esige il sacrificio. E i piccoli passeracei, cannaiole o migliarini, su e giù a lavorare come pazzi,  presi in giro e sfruttati, fino allo stremo, dai ripugnanti esseri. Truffati, derisi, con i figli uccisi da un sistema innaturale, feroce, bieco. È la natura, dice qualcuno. È la lotta per la vita, dice qualcun altro.  Ma mentre le cannaiole non s’avvedono mai dell’odioso raggiro,  i migliarini spesso scoprono il losco progetto. La femmina del migliarino, tornando al nido, comincia a sospettare qualcosa. Sì, le sue uova sono sempre quattro. Più o meno hanno lo stesso colore….Ma qualcosa non torna.  Con il becco, inizia a rivoltarle su e giù, per capirne il peso. Poi, non contenta, picchiettando sui gusci ne ascolta il suono…..: sì, decisamente un uovo,  uno soltanto,  è differente dagli altri.  Che ingiustizia, chi sarà stato? Non sprecherò tempo ed energie preziose per nutrire uno straniero introdottosi con l’inganno a casa mia! Devo pensare ai miei figli! Loro dipendono da me! Così, il migliarino dà un colpo di becco al guscio dell’intruso, si nutre del succoso interno, e lo scaraventa fuori, tornando a covare felice le sue vere creature. La giustizia,  prima o poi, trionfa.

  • Mari
    6 Maggio 2020 a 01:41
    Rispondi

    Rancore, orgoglio, rabbia, delusione. Sono anche loro emozioni, va bene accoglierle, ma non va bene lasciarsi consumare da esse. Si prendono per capire, e distinguere le situazioni, si accoglie la tristezza, le lacrime per buttarle via fuori…. e poi magicamente, un sorriso. Stai bene, e non sai come sia successo. Ma stai bene, e non ti preoccupi più. Va tutto bene, ora puoi respirare normalmente, ora puoi riempirti i polmoni di gioia, di aria nuova. Sei pronto, al presente. Niente più passato che ti guasta, niente paura del futuro che ti blocca. Ci sei tu. Tu, che conti più di ogni negatività. Come un bruco, ti sei chiuso nel tuo bozzolo, per uscire più bello e forte di prima.

    ⭐️Forse capiterà che ti si chiuderanno gli occhi ancora, o forse sarà una parentesi di una mezz’ora⭐️

  • Mari
    17 Maggio 2020 a 03:32
    Rispondi

    “E poi non c’è più niente da dire
    e poi non hai più niente da capire
    se non che quando resti solo
    alla fine poi ti senti..”

    Diodato_Solo

  • Fulvy
    22 Maggio 2020 a 12:31
    Rispondi

    Pronto? Buongiorno signora, ci dica! Buongiorno, mi chiamo Rossana. Eh, niente, stavo ascoltando il vostro programma, e i suggerimenti della psicologa per superare in maniera positiva questo brutto periodo, chiusi in casa…Certo, la dottoressa ci consiglia di leggere dei bei libri, di creare qualcosa, di parlare con i conoscenti usando telefoni e videochiamate… Sì, è un ottimo suggerimento,  sa? Però questo presuppone la presenza di una certa intelligenza e capacità, preesistenti al virus. Io, attorno a me, vedo solo gente vuota. Incapace di ragionare in libertà,  di avere un’opinione controcorrente.  Le persone guardano la tv prediligendo vuoti giochi a premi, isole dei famosi e grandi fratelli. In tante case non ci sono neppure libri e tutto ad un tratto abbiamo addirittura scoperto che i bambini non possedevano nè matite colorate nè fogli di carta o quaderni per passare il tempo. Così, vede, mi rattristano queste “formule salva-vita” dell’ultima ora.  Ancora di più se suggerite da psicologi ed esperti.  Tempo fa, leggevo un saggio che spiegava la società “dell’essere ” (cioè stabile e in forma) e la “società del divenire” (cioè del mutamento, del fluire). Ecco, io, da quel giorno, ho cambiato vita. Ma personalmente,  intimamente. Ho lavorato con forza su me stessa, senza aiuto. E così ho  cominciato a capire che questa nostra società,  il nostro paese, ha fallito su un punto fondamentale. Chi guida questo nostro popolo non ha fatto nulla per aiutarlo a crescere. Doveva fare appello alle facoltà e possibilità più alte dell’essere umano, doveva bagnare le nostre piantine tenere fin dalla nascita, farle crescere alte e forti, pronte per affrontare il maltempo che prima o dopo sarebbe arrivato. Tutto questo non è accaduto.  Da subito la nostra più alta sensibilità viene inibita, siamo adulati, manovrati, comprati. In tal modo la nostra naturale capacità interna di affrontare la vita viene brutalmente compromessa, la nostra intima libertà di pensiero e valutazione della realtà viene annientata e basta un niente per farci sentire psicologicamente fragili, stanchi, perduti. Può essere utile il consiglio dell’esperto a questa umanità? Ne dubito,  a questo punto.  La ringrazio comunque per avermi fatto parlare, e le auguro buona giornata.

    1. giorgiogiasir
      28 Maggio 2020 a 11:32
      Rispondi

      Bellissimo scritto caro Fulvy!
      Come risposta inerente all’argomento ti scrivo un pensiero che avevo scritto un po’ di tempo fa:

      Voce

      “Una voce che grida nel deserto è forte e chiara,
      come una goccia d’acqua che gocciola da una fontana nel cuore di una notte stellata d’agosto.
      Un’altra voce invece, che urla tra miliardi di persone che parlano incessantemente, è come il fruscio di una singola foglia nel bel mezzo di una bufera.”

      Giorgio Giasir
      09/01/2019

  • Vero
    1 Giugno 2020 a 10:50
    Rispondi

    •Dovremmo fare come i girasoli, che non si fanno trasportare dai falsi bagliori, ma che concentrano il loro sguardo verso il sogno•
    ☀

    1. giorgiogiasir
      6 Giugno 2020 a 16:46
      Rispondi

      Grazie cara Vero per questa splendida metafora, hai arricchito la battigia con un altro corallo prezioso! Spero tanto scriverai ancora per noi su “brezza di mare” ☀🌻🐚

  • Vero
    7 Giugno 2020 a 14:42
    Rispondi

    Dopo tre mesi, ho fatto ritorno sulla mia isola. La mia isola divisa tra cielo e mare,​ l’isola della mia vita, la mia isola felice per moltissimi anni.​
    Ma il rientro mi ha scossa un pò: è come se mi sentissi una turista eppure sono nata qua.
    Come è possibile sentirsi un’estranea nel proprio luogo di origine e sentirsi ormai un’ estranea anche per la propria famiglia? Come è possibile che in mezzo a così tante persone, ci si senta soli? E allora la soluzione è prendere la macchina e andare a rifugiarsi al mare, sedersi là sulla riva poco distante dalle onde che con una melodia dolce ed elegante sembra che ballano e ti bagnano i piedi.
    Tu rimani là assorta nei tuoi pensieri​ e ti sbuca anche un sorriso su quel viso malinconico che fino a poco prima ha lasciato spazio alle lacrime.
    Ti lasci cullare dalle onde, chiudi gli occhi e per un attimo tutto passa, tutte le negatività vengono spazzate via e ti rimane solo tanta pace dentro di te.
    E capisci che non c’è bisogno di avere tante persone intorno, ma che basta anche solo il mare.
    Si, il mare, è il mio antidoto felice.
    🌊

    1. Mari
      21 Giugno 2020 a 23:29
      Rispondi

      Che bello! Complimenti!

      1. Vero
        22 Giugno 2020 a 20:16
        Rispondi

        Grazie mille☺

  • giorgiogiasir
    7 Giugno 2020 a 15:12
    Rispondi

    Grazie Vero per questo bellissimo pensiero, il mare ci fa sognare, ci fa rinascere. Non bisogna dimenticare i poteri del mare: la fantasia, il viaggio, la positività nel ricominciare, scaturisce da quel dono atavico che appartiene alla natura umana: la contemplazione del mare. E tutto cambia, tutto si trasforma ed il viaggio riparte con una nuova brezza negli occhi e nel proprio cuore! 🌊

  • Fulvy
    14 Giugno 2020 a 13:32
    Rispondi

    Si siede. Guarda la gente che passa. Ordina un cappuccino. Versa lo zucchero piano. Mescola e mescola.

    Aspetta qualcuno? No, non ha un appuntamento, questo anziano solo. Impiega il tempo così, uscendo semplicemente di casa e andando al caffè. Non legge il giornale, non fuma, non telefona, nulla.  Se ne sta lì a guardarsi intorno. Immagino la sua mente impegnata nel ricordare ogni singolo particolare, chi passa in fretta, le donne, gli anziani come lui. Vediamo se riesco a capire i suoi gusti. Gli interessano le donne, sì, vedo che le guarda un po’ su di giri. Ma non sono al centro della sua attenzione. Come non viene catturato dai ragazzi o dalle ragazze all’uscita da scuola. Capisco anche che non ascolta il chiacchericcio attorno  a lui. Il barista  sta attaccando una discussione con un fornitore, mentre la signora piacente dietro di lui spettegola al cellulare accarezzando il suo cane. No, tutto questo lo interessa in modo relativo. Beve il caffè, non tutto, lo lascia un po’ là. Continua a guardarsi in giro e finalmente …ecco: l’oggetto del suo interesse. Che si avvicina piano, a passo lento, quasi zoppicando. Si ferma ad ogni vetrina con lo sguardo un po’ spento, rassegnato. Raggiunge quasi i nostri tavolini ma non si ferma, piuttosto con difficoltà quasi accelera e passa oltre. È un anziano, un vecchio come il mio amico qui a fianco, che –  adesso sì – dimostra un acceso interesse e non lo perde di vista un attimo, lo guarda, lo seziona, lo scannerizza per benino, lo valuta in tutto, saprebbe dire di lui età, peso, se fuma, se ha figli, se è vedovo o se è malato. Lo scruta a fondo, lo apre mentalmente come un macellaio col vitello sul tavolo di marmo per capire che no, maledizione,  lui non è,  non è ancora ridotto così! Lui si sente ancora in grado di farcela, di uscire senza aiuto, senza quel bastone, senza fermarsi ogni venti metri. Lo vedo più calmo, si raddrizza un po’ e finisce il suo caffè. Soddisfatto si alza, paga e se ne va. Me ne vado anch’io. Contento di aver fatto una pausa dalla routine, contento di non aver guardato lo schermo del cellulare, contento di aver visto un pezzo di vita vera, felice di capire l’Uomo.

  • giogiasir
    21 Giugno 2020 a 00:31
    Rispondi

    ” Non c’è forma di schiavitù più resistente, dell’esser schiavi dei propri bisogni.
    Quando questi ultimi sono creati da altri e sono ben diversi dai nostri,
    e da quel che ci renderebbe veramente felici,
    essendo realmente “nostro” bisogno.

    Bisogna lottare per i propri ideali, per i propri sogni, per i propri obiettivi lungimiranti e idealisti,
    per le proprie visioni e non per i bisogni che ci insegnano ad avere. ”

    Giorgio Giasir
    21/06/2020

  • Vero
    22 Giugno 2020 a 20:24
    Rispondi

    •Tante volte capita che le varie situazioni della vita ci facciano sentire bloccati, fermi , impauriti.
    E che questa paura si impadronisce di noi togliendoci il respiro. Questo perché spesso, noi esseri umani, abbiamo il timore di fare quel saltino in avanti che magari ci potrebbe migliorare la vita, abbiamo l’ansia per esempio di sostenere un esame difficile , la fobia di affrontare una terapia forte o di rimanere soli.
    Dovremmo andare al di là della paura, dovremmo mettere da parte tutti i pensieri negativi e buttarci verso nuovi orizzonti, verso nuove sfide con noi stessi.
    Solo così, potremmo ritrovare la bellezza che sapevamo vivere quando eravamo piccoli, tuffandoci ad occhi chiusi in quello che la vita aveva in serbo per noi• 🌅

  • giorgiogiasir
    27 Giugno 2020 a 10:54
    Rispondi

    ” Ognuno riesce ad apprezzare fino a dove riesce a capire. ”

    Giorgio Giasir
    27/06/2020

  • Fulvy
    30 Giugno 2020 a 16:12
    Rispondi

    “Quanto” ci fidiamo di noi stessi? Quanto ci facciamo condizionare dal mondo che ci circonda? Dagli altri? Le esperienze altrui, non sono le nostre. Se fino ad oggi la vita ci ha sorriso, è perchè abbiamo agito/pensato bene? Non dovremmo essere preoccupati del futuro. Niente paura, se siamo noi gli artefici del nostro destino.

  • Fulvy
    20 Luglio 2020 a 15:21
    Rispondi

    Finalmente,  la prima partita. Dopo il lockdown vedersi il calcio sul divano sembra una novità assoluta. Mi accoccolo tra i cuscini con qualche aspettativa,  vincere ed essere ancora tra i migliori. Dopo qualche minuto, però, mi accorgo di non seguire i dribbling e le smorfie dei calciatori, né il fischietto dell’arbitro che finge severità. Il pubblico non c’è, la partita è a porte chiuse e il silenzio irreale fa trapelare i commenti della panchina o le urla degli allenatori. Sembra una normale competizione di periferia, una partitella sotto casa la domenica pomeriggio.  Quanto è importante il pubblico? Tutti assieme a fare gruppo, a urlare, a incitare il proprio idolo, a ricordare all’arbitro di essere un cornuto. Sembra importantissimo,  anzi, essenziale. E i giocatori lo sanno, non rendono al massimo, si vede. Non sono svogliati, corrono e fanno il loro dovere, ma la mancanza di quella consueta bolgia li fa sentire fuori posto. Senza incentivi non si produce. Un Colosseo senza leoni, che roba è? Il gruppo, è veramente così importante? Quando andavo alla scuola elementare, per una epidemia di scarlattina eravamo rimasti sani in tre.  La maestra in aula era svogliata,  vedeva che non eravamo più una classe vera, tre alunni non fanno un gruppo a cui insegnare come sempre, così cominciò a cedere e a chiacchierare con quei tre bambini. Ci guardò con occhi differenti, ci chiese di noi, di quello che ci piaceva fare, di quello che avremmo voluto sapere. Ero timido, e quella novità assoluta mi emozionò.  Risposi alle sue domande sentendomi grande, finalmente cresciuto e degno dell’attenzione paritaria di un adulto. Mi sentivo per la prima volta di fronte a me stesso, alla mia responsabilità.  Non c’erano i compagni a intorbidire le acque, ero solo. Io e la maestra che parlava con me. Anche gli altri due bambini erano diversi dal solito, lo vedevo, sentivo che anche loro erano nudi di fronte a quella nuova situazione, nessuna chiacchiera alle spalle, sussurri e rumori di quaderni o penne, niente astucci che cadevano o seggiole trascinate da un posto all’altro. Concentrazione. Attività motoria sospesa. Spostamento di livello. Dopo quella strana mattinata, tre bambini sono cambiati. Hanno fatto un’esperienza comune che ha arricchito la loro mente, si sono legati tra di loro con complicità,  sentendosi diversi dai loro compagni, in quel momento a letto e coccolati dalle loro mamme, ignari di quell’evento importante. È così decisivo, il gruppo? Forse no, non così decisivo, alla fine. O almeno, non dovrebbe esserlo.

    《Be’? Che c’è? Hanno segnato! Non dici nulla?》

    La guardo e mi metto a ridere. Sono contento, sì! Sono proprio contento.

    1. giogiasir
      22 Luglio 2020 a 01:31
      Rispondi

      Bellissimo caro Fulvy! Come sempre riesci a suscitare emozioni nuove, apri porte dietro alle edere incolte, dei nostri tempi privi di tempo, che nascondono strade importanti, da tenere sempre sott’occhio nel proprio riflettere quotidiano. Grazie

  • giogiasir
    22 Luglio 2020 a 01:21
    Rispondi

    Oggi spezzo una lancia a favore degli ingegneri, evento più unico che raro! :p :
    “Per un ingegnere non conta possedere un oggetto,
    per lui la bellezza risiede nel crearlo passo dopo passo, vederlo prendere forma,
    dall’inizio, quando era solo un idea, a quando non voleva saperne di fare il suo mestiere, fino
    a quando dopo accurati e pazienti passi di levigazione progettuale, può finalmente essere un oggetto desiderato da qualcuno per la sua utilità. ”

    Perché se possiedi la faticosa magia della creazione,
    hai su di te solcata l’affascinante e vorticosa strada della comprensione della sua natura fisica,
    e dunque hai già tutto quello che quella materia poteva donarti.
    E quell’oggetto tecnologico possiederà per sempre una parte di te.

    Giorgio Giasir
    22/07/2020

    1. Fulvy
      22 Luglio 2020 a 15:51
      Rispondi

      Bravo Giorgio! Trascrivo il pensiero del filosofo tradizionalista Guido de Giorgio:
      “È il soffio di Dio che esprime le forme, mentre il lavoro è lo sforzo di enucleazione della realtà profonda celata, velata, protetta nella materia da cui deve trasparire per rivelarsi all’uomo.
      Gli utensili, gli oggetti dell’uso più comune, non sono stati creati per la soddisfazione dei nostri bisogni, ma unicamente per esprimere i rapporti analogici tra la parvenza e la realtà, tra ciò che appare e ciò che è, tra il mondo e Dio. L’arte della creazione, della trasformazione della materia, rappresenta la trans-formazione, cioè un superamento della forma, imprimendo al più umile degli oggetti, degli utensili, degli strumenti, il suggello della sua destinazione simbolica”.
      Senza il soffio divino, caro Giorgio, nessun ingegnere potrebbe creare alcunchè, come fanno tutti gli altri rappresentanti del mondo animale. Se l’uomo riesce in questa grande opera, è soltanto per ricordare a se stesso che il Divino esiste.
      Viva gli ingegneri, quindi! 😊

      1. giogiasir
        27 Luglio 2020 a 19:49
        Rispondi

        Che bel commento caro Fulvy! Grazie veramente per questa pillola di cultura 🙂

  • Fulvy
    19 Agosto 2020 a 13:40
    Rispondi

    Oggi è sabato. Un agosto con vento fortissimo di bora mi impedisce di andare al mare. Opto per una capatina oltre confine, in Slovenia. Qualche spesa per ortaggi biologici e tartufo nero estivo, e mezzogiorno arriva in un attimo. Languorino e pensieri. Non siamo stati da queste parti, a novembre? Sì,  la classica “osmiza “, ritrovo carsico lungo il confine, dove due volte l’anno si può mangiare, bevendo il vino delle campagne limitrofe.  Eccola. È chiusa, adesso. Il periodo è finito, se ne riparla l’ultima settimana di ottobre. Sotto al bel portico ombreggiato della casa, però, scorgo un uomo e una donna seduti al tavolo. Scendo quindi dalla macchina per informazioni e noto che i proprietari,  sulla sessantina, marito e moglie,  puliscono grandi mazzi di prezzemolo.  La signora mi sorride, buongiorno! Sì! Potete mangiare affettati o uova strapazzate,  sa, è chiuso e la cucina la apriamo a San Martino. Chiedo del prezzemolo…. una bella macchia verde brillante sul tavolo di legno grezzo. Profumo. Ombra. Vento caldo smorzato dal muro del portico.  Gente cordiale. Un sorriso aperto sul bel volto di donna energica, lavoratrice,  un buon frutto aspro ma dolce allo stesso tempo. Il prezzemolo serve per fare le melanzane. Il marito mi sorride timidamente, un bell’uomo un po’ più anziano, abbronzato e quasi imbarazzato a farsi “beccare” lì con la sua donna, ad aiutarla in quel lavoro da massaia, lui che – si capisce dal colore della sua pelle cotta dal sole – è abituato a starsene nella vigna dove le sue grandi mani si sentono a loro agio, più che in quel lavoretto da cinesino al telaio. Vada per le uova e i salumi. Il pane è fatto in casa,  la donna si affretta a prepararci il pranzo inaspettato e ci godiamo l’attesa. Tutto è selvaggio, qui.  Il nostro carso, come quello sloveno,  ci regala una natura ancora primordiale coi i suoi sassi bianchi di calcare, le sue roverelle tanto schive da non voler esser chiamate querce,  le sue case di pietra ancora in piedi. Tutto ci ricorda i tempi lontani, l’origine del nostro popolo, la nostra terra. Dopo mangiato facciamo due chiacchiere con la padrona di casa, che in assenza di turisti si concede una pausa e parliamo delle nostre vite. Si stava meglio prima? O è meglio una società senza il comunismo? La donna accetta volentieri la domanda sulla ex Jugoslavia dove, dice, non avevano metodi di paragone e sembrava che tutto funzionasse. Ma non era proprio così.  Lei e il marito avevano sempre lavorato molto e risparmiato i soldi per un’automobile.  Però al momento giusto…di automobili non ce n’erano. I negozi erano vuoti di beni, di merce, di tutto. Non si trovava nulla. Oggi i negozi sono pieni di ogni ben di Dio ma i soldi….non ci sono. Poi si toglie un sassolino dalla scarpa e inizia a raccontare la storia di una ragazza serba, roba di 40 anni fa, che è partita da casa con una busta di nylon con dentro pochi stracci e si è stabilita lì. Sfruttando le leggi di allora, che agevolavano le mescolanze etniche del territorio nazionale jugoslavo,  la ragazza aveva ottenuto subito un appartamento, ha trovato immediatamente un marito e ha fatto un figlio, tutto questo in soli 12 mesi. Poi, con la caduta del regime, hanno venduto la casa, e con un piccolo credito della banca, a tasso zero, ne hanno comprato una più grande, poi la macchina, poi altre agevolazioni, insomma mille impicci uno sull’altro, e oggi che la serba vive sola, ha venduto la casa qui per andarsene in città, dove ci sono i negozi, i servizi e tutto! E io? In 40 anni sono sempre qui, a lavorare sempre, senza l’aiuto di nessuno….Io e mio marito abbiamo sempre lavorato tanto, sa? E ancora oggi, lo facciamo per poter aggiungere qualcosa alle nostre misere pensioni.  Ma l’importante è stare bene, e in pace…. Ora devo andare in cucina….le patate bollite sono cotte e mio marito le porta ai porcellini che ne vanno matti! 

    Sorridendo se ne va; è già sparito il suo rancore, il piccolo sfogo umano di un’ingiustizia subita; lei lo sa che la sua vita è stata giusta, perfetta per lei,  per le sfide che ha accettato e superato e si vede. Lo vedo anch’io. Nei suoi occhi, in quelli del suo compagno.  Hanno costruito una vita assieme, ci hanno messo tanto impegno, lavoro, dedizione,  amore. La “serba” oggi è ricca ma sola. Una diversa visione della vita, sicuramente perdente. L’immagine serena di quella coppia matura, invece, all’ombra dolce del loro portico, a pulire assieme il verde prezzemolo appena colto dal proprio orto parlava da sè. Dicendo a tutti: ce l’abbiamo fatta!

  • giogiasir
    3 Settembre 2020 a 18:20
    Rispondi

    “I libri sono fiori che crescono dentro l’anima, innaffiali con la tua vita e li vedrai sbocciare in storie incredibili.”

  • giogiasir
    3 Settembre 2020 a 18:44
    Rispondi

    Quando lo senti dentro, che c’è qualcosa su cui non vuoi tacere, qualcosa da esprimere, qualcosa che non può scendere giù e dissolversi nel silenzio interiore, quando lo senti pulsare sulla pelle in forma di piccole gocce di sudore freddo “vibrante”, non farlo tacere ma esprimilo… Prendi un foglio, prenditi del tempo ed esprimilo. E sta attento a quello che hai espresso, medita, raffina, separa la rabbia ed il sangue delle ferite dall’ineffabile sostanza della pura giustizia e riscrivi quel che hai pensato. perché il pensiero vola, e deve essere libero di volare sopra il cielo e le stelle, ma la sua essenza più profonda, il suo distillato, deve impregnare le pagine della nostra vita, dei nostri ricordi, e deve dare attraverso uno scritto “raffinato”, le ali ai piccoli novelli viaggiatori già lì pronti a spiegare le le loro ali nei cieli ancora inesplorati. Non ammazziamo tutto, in pulviscolo di frasi già lì pronte da sfornare in ogni occorrenza ma raffiniamo quel che possiamo, elaboriamo astutamente ciò che sentiamo che debba trapelare sulla carta e nella voce, di quel che abbiamo vissuto e abbiamo fatto nostro.
    Voglio leggere questo: Voglio leggere vita che genera vita.

    Grazie a chi lo fa!

    Grazie a chi vuole far volare più in alto l’uomo e l’umanità intera.

    Giorgio Giasir

    03/09/2020

  • giogiasir
    4 Settembre 2020 a 12:51
    Rispondi

    Una civiltà in cui la tecnologia cresce a dismisura, mentre la cultura rimane statica, è una civiltà vichinga.

  • giogiasir
    8 Settembre 2020 a 09:45
    Rispondi

    quando un giorno il pianeta ci rigetterà, non andrà a vedere né il PIL, né il bilancio economico di alcuna impresa. L’economia è solo un buon metodo per giustificare il nostro desiderio di supremazia su tutto quello che esiste.

    Giorgio Giasir
    08/09/2020

    1. Fulvy
      8 Settembre 2020 a 21:32
      Rispondi

      Bella riflessione, Giorgio. È l’uomo, con la sua fame di vita, fame fame fame, che divora tutto, tutto, vuole tutto. Non gli basta più solo esistere. Il potere ha sostituito il suo bisogno assoluto di vivere. È un “di più “, più potere, più soldi, più illusione…Vuole vivere, l’uomo. A tutti i costi. Sempre. Per sempre.

      1. giogiasir
        9 Settembre 2020 a 12:39
        Rispondi

        Bravo Fulvy, esattamente: cito “Non di solo pane vive l’uomo” e mi permetto di aggiungere: ” non di solo potere vive l’uomo, non di solo saldo vive l’uomo”. La fame di vita è sacrosanta, quel che dovrebbe essere rivalutato nuovamente e ripetutamente è: cosa vuol dire vivere? Cosa è la vita? Domande a cui ognuno, nel suo piccolo, dovrebbe saper dare una risposta. La vita è gratuita sì, ma prevede delle regole, diversamente si paga, con la vita stessa, con la morte, fisica o spirituale che sia…

  • Fulvy
    9 Settembre 2020 a 20:20
    Rispondi

    Tramonto. Sono appena le 19.30. Il cielo è ancora chiaro ma è ora, per qualcuno, di andare a dormire. D’estate le cornacchie scendono a quest’ora in città.  Dalla collina volano verso le case per andarsene a riposare, chissà dove. Ogni sera, la stessa fantastica scena. Gruppi di 10-15 uccelli grigio-neri planano verso il centro città,  riuniti da un misterioso richiamo. Ogni sera, sempre alla stessa ora, passano sulla mia testa per il loro rito.  Qualche esemplare, ad un certo punto, comincia a “dar di matto”. Si attorciglia su se stesso, fa una finta, sembra arrestarsi nel volo, emette un grido rauco, e parte all’attacco. Punta un compagno, in volo nel gruppo, e lo istiga al gioco, lo pungola, lo provoca, lo insegue,  e l’altro ci sta, lo sfugge e lo insegue,  fa una picchiata improvvisa, una risalita, e la cornacchia leader si lascia cadere, esegue un giro della morte perfetto, da aeronautica militare. Poi si calmano, ad ali spiegate riprendono la rotta e scendono, calme, soddisfatte.  Dopo neppure un minuto arriva un altro gruppo, stessa scena,  evoluzioni ripetute,  versi gracchianti per sollecitare un compagno,  dài sbrigati è ora….sono qui…. Eccolo, lo vedo, il leader. Vola verso il basso come se niente fosse, ma è attentissimo al suo bisogno di gioco, di socialità, di vita. Punta il suo compagno, chissà se è sempre lo stesso, o magari uno diverso ogni volta…. Il gioco, il gioco, ….indispensabile alla socialità,  alla vita. Questo si ferma quasi,  in volo, rallenta per aspettare l’altro che capisce, ci sta, lo provoca planando e, di colpo, sterzare all’improvviso.  Tutto cambia in quel volo di gruppo, più esemplari si scontrano apposta senza farsi male, godono di quell’attimo unico, il solo che io possa vedere in ogni singola giornata,  il momento magico della sera. È passato un altro giorno in sicurezza, sono vivi,  felici, festeggiano la fine delle 24 ore sul pianeta,  domani si vedrà.  

    E io? Voglio rivedere questo gioco, ancora? Sì,  Giorgio. Anch’io lo voglio rivedere ancora, e ancora, e ancora. Per sempre.

  • giogiasir
    11 Settembre 2020 a 09:17
    Rispondi

    Splendida risposta Fulvy, vedendo tutto da una prospettiva diversa e inesplorata, che dà un ulteriore senso alla bellezza della vita. Grazie

  • Fulvy
    6 Ottobre 2020 a 20:33
    Rispondi

    Non sei tu. Non sono io. La nostra pelle, il viso, i muscoli, le ossa. Dove sono finiti quei due ragazzi? Due atleti, splendidi, lei, lui. Ricordo a vent’anni,  quella gita in montagna. Zaino in spalla, calzoni corti e calzettoni. Un mito le tue gambe, uno spettacolo indimenticabile per chi le ammirava con stupore. Coscia scolpita e polpaccio alto in uno scattante insieme da antilope.  A distanza di qualche lustro, la proprietaria dell’albergo si ricorda ancora di te…Buongiorno, sì si mi ricordo di voi, sono passati tanti anni, c’era quella ragazza con quelle bellissime gambe….Certo, io le vedo ancora oggi. Sono le stesse, sei tu. Ma allo stesso tempo, non è vero. Penso a quei film di fantascienza, dove il tempo viene invertito e la sceneggiatura di fantasia si dipana tra salti temporali impossibili. Prima…dopo…. vecchio….giovane…Un vero casino. E mi fermo a pensare,  su di me, più che su di te. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco, anche se la mia altezza è la stessa, il peso pure, le mie mani, le braccia, sono quelle? Quello specchio non perdona ma il mio cervello vede un’altra realtà.  Ti desidero ancora, e anche tu. Tu non vedi la mia immagine riflessa: vedi me. Una allucinazione. È l’amore.  Il miracolo umano che cambia la realtà,  sempre in  meglio. Incredibile e potente. L’amore.  Consente ad entrambi di vedere il meglio, l’originale. Non mi accorgo del tempo passato su di te, ma solo del tempo che ha cambiato me. E per te è lo stesso. Ti guardi e ti critichi, ma quando osservi il mio corpo e il mio viso, ti vedo, mi guardi come sempre, con l’amore dei 20 anni. 

    1. Mari
      15 Ottobre 2020 a 01:42
      Rispondi

      “La ragazza dei tuoi sogni” ❤️

      1. Fulvy
        15 Ottobre 2020 a 09:37
        Rispondi

        Sì! Ciao Mari!!

  • Fulvy
    28 Ottobre 2020 a 15:39
    Rispondi

    Il web è comodo, fastidioso, utile, dannoso. Un sacco di  cose racchiuse nei pochi centimetri di un contenitore di plastica. Fa piacere, però,  ogni tanto, tuffarsi in quel mare di ricordi, dati, appunti e nomi buttati qua e là. Così Angela perde un po’ di tempo a cercare qualcosa, non lo sa neppure lei che cosa, tanto per passare qualche ora in pieno relax e senza obblighi. Qualche nome le affiora in testa, sulle sue frequentazioni giovanili,  la scuola. Come si chiamava la mia compagna di banco? E quella famosa, ganza, super esperta….E la matta, la rockettara? Il figo e quella che gli moriva dietro…. Alessandra? Boh… non ricordo più… ah! Guarda qui! ….Ma vedi te…. questo è diventato un artista, un pittore… chi l’avrebbe mai detto. Su Facebook la gente si spoglia, si mette a nudo,  dice tutto di sè, quello che fa o che vorrebbe fare, quello che vuol far credere, e crederci. Qualcuno però non c’è mai, non si trova. Meglio, pensa lei, forse un po’  di riservatezza non guasta, in questi tempi di grande apparenza. Peccato, però. C’è sempre qualche persona che vorrei ritrovare. Vorrei vedere come è cambiato, cosa fa, se vive qui o all’estero, se è vivo….

    Ma Seo non c’è. E non si trova neppure Paolo, Eleonora, Elisabetta. Peccato. Angela ci riprova tante volte, con lentezza, ogni tanto, forse una volta o due l’anno, giusto per non lasciar perdere la ricerca, disinteressata, di chi ha vissuto assieme a lei qualche anno di vita. Ricordi condivisi. Ma quali? Lei era timida. Seo l’aveva notata. Ogni tanto, con leggerezza,  la tormentava un po’. Poche cose, stupide, timide, innocue, infantili. A 13 anni basta battere con il piede la seggiola di lei, nel banco davanti, e farla innervosire.  Si accorgerà di lui, questo è sicuro. Ma Angela non lo guarda con attenzione, lo vede un compagno di classe, particolare,  con carattere, biondo e con un gran nasone. Sembra un leone, Seo, con una gran testa di folti riccioli chiari da pecora spettinata. I suoi occhi azzurri un po’ tristi contrastano con le sue movenze sicure, da piccolo uomo, che Angela ancora non apprezza, nè osserva con particolare interesse. Ma i mesi corrono e qualcosa nell’aria cambia. La mattina dell’ultimo giorno di scuola lei esce in ritardo dalla classe e si ferma alla fermata del bus per tornare a casa. 
    Non c’è più nessuno, gli altri scolari sono già andati via e lei aspetta da sola in strada.
    Nello scrutare lontano, laggiù, l’autobus prima o poi arriverà, i suoi occhi vedono Seo. Dietro un angolo la spia, la osserva, aspetta che esca da scuola. Ma che ci fa, lì? Si chiede Angela guardandolo: e capisce. Seo non è andato a casa ma ha aspettato lei, per vederla uscire, un’ultima volta. I cinquanta metri che li separano si dilatano improvvisamente in tutte le direzioni, spariscono i palazzi, la strada, la scuola, le macchine, la fermata del bus. Rimane lei, in piedi e immobile. Rimane lui,  dietro un muro a guardarla. Seo, appena si accorge che Angela lo ha scoperto, si nasconde. Dietro l’angolo, rosso di vergogna, che farà? Niente.  Aspetta che lei salga sull’autobus e sparisca al più presto, togliendolo dall’imbarazzo.  Quante volte ci ha pensato, Angela, a quella scena. Inaspettata, rivelatrice, l’occasione impacciata di lui: l’ultimo giorno di scuola. Perché? Non ha avuto il coraggio di parlarmi mai, da ottobre a giugno, solo qualche piccolo dispetto,  un’occhiata furtiva, e oggi? Che gli sarà successo? Gli mancherò quest’estate? Quel giorno si è sentita diversa. Salita sul bus è rimasta in fondo alla vettura, guardando dietro,  per vedere se lui se ne usciva dal suo angolo privato, ma il punto di osservazione scomparve prestissimo, non lo vide più, lasciandola con i suoi nuovi pensieri. Una sorpresa,  quindi. Come oggi. Un venerdì di ottobre. Nuvoloni scuri nel cielo chiedono introspezione,  così Angela picchietta la tastiera. Oggi è un venerdì di ottobre, il cielo è scuro e chiede attenzione. Tanta. E lei lo trova. Lo shock è un attimo, difficile da accettare e sorprendente nella velocità della videata. Il web non mente. Quell’uomo ritrovato è lui. È Seo. Non vive qui, ha cambiato la sua vita con una scelta coraggiosa. Chissà quale strada ha percorso quel ricciuto ragazzino biondo dal gran nasone e dai tristi occhi azzurri. Angela non lo può sapere e non lo ha più visto per 40 lunghi anni. Lo sente parlare nei video di YouTube,  e riscopre la dolcezza del suo viso, l’espressione sicura e ferma, la piega della bocca nel pronunciare le parole Dio, Vergine Maria,  Figlio. Che cosa è accaduto, Seo? Sei diventato un frate, un uomo di chiesa, e io lo scopro solo oggi, dopo tanto pensare a quel mattino di giugno, a scuola chiusa, io e te da soli.

    1. giogiasir
      1 Novembre 2020 a 18:02
      Rispondi

      Grazie Fulvy, grazie per riuscire a farci volare in questi luoghi fuori dal tempo, immagini e scenari degni dei migliori registri, scenografi , magari anche disegnatori d’animazione. Immagini scolpite, come solo lo spirito libero e umano può descrivere. Grazie di questo dono incommensurabile che ci regali qui, a tutti noi, lettori in brezza di mare. Buon tutti i Santi caro Fulvy! 🙂

  • Mari
    8 Novembre 2020 a 02:22
    Rispondi

    Pensa positivo. Medita. Sorridi alla vita, e sii grato. Mal che vada cosa ci perdi?! Un muso lungo?

    1. giorgiogiasir
      8 Novembre 2020 a 10:38
      Rispondi

      Ben detto Mari! 🙂

      1. Mari
        14 Dicembre 2020 a 00:26
        Rispondi

        💪🏼

  • Mari
    13 Novembre 2020 a 02:26
    Rispondi

    Ti vedo dall’altra parte della stanza. Io sono nascosta nell’armadio, pronta a farti spaventare. Tu sei lì, bello. Bellissimo, con i capelli nerissimi, gli occhi leggermente a mandorla e così scuri che mi perdo ogni volta. Ma ti giri verso di me, forse mi hai vista, oramai mi conosci bene, sai bene che mi diverto a farti spaventare, così per “punizione” mi insegui e mi riempi di baci. E ti vedo, anzi purtroppo per le mie povere orecchie, ti sento stonare. Cambi una strofa strofa della canzone e mi fai ridere così tanto, che casco. Ed ecco cos’era! Una trappola per potermi prendere e tu per non prenderti un colpo tutte le volte. Siamo a terra entrambi e scoppiamo a ridere. Hai le lacrime agli occhi. Poi ti fermi, cerchi di fare il serio e mi dici “Questo che stiamo vivendo, è tutto quello che so sull’amore” niente io non so esser seria, ti guardo e rido ancora a più forte. Però sì, l’ammmmore è questo. L’amore sei tu. Siamo noi.

    1. Fulvy
      13 Novembre 2020 a 15:35
      Rispondi

      ⚘

      1. Mari
        14 Dicembre 2020 a 00:24
        Rispondi

        ❤️

  • Fulvy
    12 Dicembre 2020 a 14:49
    Rispondi

    Tre milioni e cinquecentoquarantasettemila euro. Appena leggo il prezzo di questo lussuoso appartamento, messo in vendita nella mia città, mi incuriosisco e apro la pagina web. Grandissimo, bellissimo,  un restauro perfetto. Quasi. Noto con meraviglia un dettaglio importante. Esattamente come in tutte le nuove costruzioni o ristrutturazioni,  …. la cucina non c’è. Possibile? L’essere umano non si nutre più? Vediamo. Che cosa sostituisce la tradizionale cucina, piccolo o grande vano dove la famiglia si riuniva, chiacchierava, litigava, rideva, mangiava? Oggi troviamo un triste “angolo cottura”, che per attrarre il compratore, nonostante la sua collocazione marginale e dopo lo scippo della sua atavica dignità,  si traveste di high-tech, mescolando acciaio e cristallo, nuovi materiali all’avanguardia e, per carità,  assolutamente non inquinanti ed ecosostenibili. Qualcuno,  qui, ci sta comunicando qualcosa. Per favore non toccarmi. Mi sciupo, mi graffio, non sopporto gli acidi, le fritture,  le grigliate. Lasciami qui, nel mio splendore da catalogo, non farmi fare la fine delle mie antenate,  di legno massello, di fòrmica, di…orrore! muratura…..Unte e logore per l’uso, le cucine degli anni passati  quasi conversavano ad alta voce con la persona che se ne serviva. Un feeling consolidato nel tempo dove lei, di solito una donna, ne capiva le potenzialità e scovava ogni angolino utile a riporre pentole e padelle,  trovando tutto al momento giusto, magari nella fretta di preparare un pasto veloce. Nella testa della cuoca si aprivano mille cassetti, portelli grandi e piccini,  colini e mestoli, cucchiai di legno e coperchi, prima ancora di aver prelevato dal frigo il necessario. Ma si possono,  oggi, usare quegli anonimi angoli cottura? Può un divano essere investito dall’odore di un intingolo, una poltrona dal profumo di cipolla, una tenda dallo stufato del giovedì? Verranno a cena i nostri amici, per andarsene via con i vestiti profumati di pesce fritto? Qualcuno, già da tempo, ci ha insegnato la solitudine e la tristezza. I film americani espongono da decenni cucine anonime sempre immobili, con il microonde appoggiato al piano di lavoro che attende il suo momento di gloria quotidiano. Al massimo una telefonata per  un pasto a domicilio , ma più spesso il precotto del supermarket faceva da padrone. Per una serata diversa, il “cinese” o il “coreano” in scatole di cartone con bacchette poteva far una certa impressione. Ma noi non siamo americani. Ci siamo ribellati? Sembra di no. La stanza denominata cucina, a partire dagli anni ’60, ha cominciato ad essere un po’ boicottata nella sua collocazione. Quasi sempre con le finestre volte a Nord,  un po’ per lasciare entrare il sole piuttosto nella zona giorno, dove si vive di più,  salotto o soggiorno, un po’ con la scusa che in cucina “fa caldo” e dell’esposizione a sud non c’era bisogno. Anche le case signorili avevano le cucine esposte a nord oppure ad ovest, tanto lì ci vivevano le colf e il personale pagato, non il proprietario, il quale attendeva nella calda e confortevole sala da pranzo, esposta alla luce, che gli venissero servite le pietanze preparate lontano dai suoi occhi e dal suo  naso.  Ma oggi? La famiglia vive fuori casa. Impegni e lavoro, scuola e sport, tutti fuori, tutto il giorno, tutti i giorni. Tempo per la cucina non ce n’è . Si mangia fuori, o si ordina con un tocco sullo smartphone . L’angolo cottura ringrazia,  si conserverà perfetto. I tempi cambiano. Ma torniamo all’inizio.  Vediamo, penso all’acquirente dell’annuncio immobiliare. Per 3.547.000 euro lui ha un meraviglioso salone firmato, con rifiniture di lusso. E angolo cottura. Che se ne fa? Lui non cucina, al massimo può farsi un caffè. Oppure una spaghettata in allegria con gli amici, o magari servirsi di un catering.  Il risultato? Piatti sporchi,  un paio di strofinacci, bicchieri da lavare, una pentola,  una lavastoviglie high tech in funzione….Il tutto conversando con gli ospiti,  nel suo salone milionario vista mare? Un pensiero mi sfiora.  E se invece…. fosse il contrario? Tu, cucina. Tu, famiglia. Voi, chiacchiere, odori, discussioni, risate. Vi abbiamo distrutto. Eliminato. Ci vergognavamo di voi. Antiquati,  fuori tempo, vecchi. E adesso? Non possiamo farvi resuscitare. Ormai è fatta. Non ti posso rianimare,  cucina mia, adorate quattro mura di felicità.  Si può rimediare? Forse. Per non perdere la faccia, per non dichiarare la nostra sconfitta sociale, per far vedere che abbiamo le idee chiare, che – no – non ci siamo sbagliati, non torniamo indietro, mai. Piuttosto facciamo finta che. E inventiamo un nuovo ambiente, più ampio, luminoso,  con quell’angolo cottura messo lì apposta per farci ricordare i bei tempi andati, ma senza recriminazioni, nessun pentimento, e possiamo stare di nuovo insieme, sì, anche oggi, sì, parliamo, discutiamo,  sì, mastichiamo, ridiamo. La recita, la finzione, in questo mondo finto, di apparenza, la sostanza è tutta qui, in questi nuovi spazi, creati sulla falsa riga di un ricordo annebbiato che non ci appartiene ma ci manca. E pensiamo a quanto siamo felici di stare di nuovo a tavola, assieme, mangiando il sushi freddo di frigo nella sua confezione di bioplastica che fa bene all’ambiente.
    Il “focolare domestico ” ha perso la sua Dea del fuoco. Estia: dove sei?

    1. giogiasir
      12 Dicembre 2020 a 15:10
      Rispondi

      Abbiamo avuto la stessa necessità di esprimerci sullo stesso argomento, con immagini differenti, nello stesso istante.
      Assurda sincronia casuale e meravigliosa.
      È bello leggere tra tra una riga e l’altra della propria vita.
      L’essenziale è invisibile agli occhi, ma ogni tanto qualcuno lo vede chiarissimo. 😉

  • giogiasir
    12 Dicembre 2020 a 14:55
    Rispondi

    L’America è come babbo Natale,
    che viene a portarti il tuo regalo e lo scarta con te sorridendo, tenendoti seduto sulle sue gambe paffute, e quando dopo esserti gustato questo incredibile momento lo saluti con affetto e gratitudine, lui ti presenta il conto.

    Giorgio Giasiranis
    09/09/2020

    I dream a world without American dreams.
    12/12/2020

  • Fulvy
    20 Gennaio 2021 a 22:54
    Rispondi

    Regione arancio. Mancanza d’aria. Esce David Bowie In Jazz. A jazz tribute to David Bowie. Apro la finestra, manca l’aria,  ossigeno, ossigeno…Insediamento di Biden. Vaccini e balle. Manca l’aria,  aria, aria.. ..brava …entra…. qui…vieni ….brava…sì, così…Note e piano.  Ground Control to Major Tom. Una carovana di migliaia di persone parte dall’Honduras per gli Stati Uniti.  Di nuovo. Ancora e ancora. Let’s dance…piano version. Borbotta anche la caffettiera. Rassicurante e profumata.  Caffè del centro America. Che c’entro io? C’entro. Aria.aria.aria fresca. Possibile reinventare il futuro? Sì. Solo riscrivendo al meglio il passato. Change it. Is there life on Mars? Forse. Grazie David. Sei stato un grande. Mi aiuti anche oggi, stasera, a finestra aperta, con gli artisti che ti hanno amato, reinventato, riscritto al meglio. Un Bowie nuovo, un David in jazz che mancava. E oggi, finalmente, c’è. 

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